Viaggio nell’Apocalisse
Lo sfondo del Salone Sistino con le volte azzurre popolate di storie e di figure paradisiache è di una raffinatezza che sfiora l’astrazione. Giusto allestirvi, con pannelli che riportano in greco italiano ed inglese i passi salienti dell’Apocalisse, il libro della rivelazione e della speranza, che ha accompagnato l’uomo per secoli. Un annuncio luminoso. Diverso dal significato catastrofico che gli è stato attribuito e che ancora oggi pervade letteratura, cinema, e pensiero comune con un senso pessimistico di terribilità. È così consolante invece scoprire a fine rassegna, come un messaggio per il nostro tempo, l’acquerello di Salvador Dalì (1962) L’Hostie: nel sole dorato che tutto l’avvolge brilla il Crocifisso, contemplato dalla figurina appena accennata dell’Evangelista Giovanni. Il rimando alla visione dantesca della Trinità suona immediato. Stupisce l’idea che ha ispirato il pittore, di Dio cioè come abbaglio luminoso in cui il dolore dell’uomo, le sue grida e le sue morti, sono comprese, al pari del corpo del Cristo che si pone trasfigurato dentro l’ostia-sole. Questo, sembra dire Dalì, è il destino dell’umanità. Anche De Chirico nelle sue litografie del 1977 tratteggia l’Apocalisse in termini chiari, di rosa e celesti, delineando un mondo di visioni, apparizioni di mostri e di fulgori – dalla bestia precipitata nell’abisso, ai Quattro Cavalieri alla Gerusalemme celeste – dove il dramma è stemperato in forme luminose. Inventa, De Chirico, per la donna vestita di sole, un corpo di classica fattura, ampio come quello di una madre, bianco su bianco nella linea purissima. È la donna d’amore. Ha riflettuto, il pittore, a lungo sul testo biblico: lo esprime come una vittoria della luce sulle tenebre. Quest’ultime, è noto, sono rappresentate dal dragone, da satana, l’antico avversario. Se per De Chirico esso è mostro informe ma non terrorizzante, perché la vittoria è vicina, le epoche precedenti invece meditano sul dramma di questa lotta, accentuandone la conclusione verso il Giudizio finale. Perciò la figura dell’arcangelo Michele che combatte satana, ma anche pesa le anime prima di aprire loro il paradiso, diventa un soggetto primario delle rappresentazioni d’arte, insieme a quello del Giudizio, quando tremor est venturus (verrà il terrore) del tremendo tribunale divino. Esempi di questo sentimento diffuso nel popolo cristiano sono il san Michele di Josse Leferinxe, con l’arcangelo armato che calpesta il demonio tenendo in mano spada e bilancia; e il Giudizio universale di Rupert Fruetrer del 1460, col Cristo frontale severo, mentre al di sotto della sua apparizione i dannati vengono gettati nella caverna oscura. Lo rappresenterà in questo modo, con dimensioni cosmiche, anche Michelangelo nell’omonimo affresco nella Cappella Sistina. Ma la vittoria è sicura, come, in tempi di guerra di religione, sembra affermare, con elegante distacco, il giovane guerriero Michele nelle tela secentesca di Guido Reni, mentre calpesta quasi con noncuranza un satana gigantesco sconfitto. L’Apocalisse infatti è anche inno di conquista di cieli e terre nuove, dove l’Agnello – il Cristo – splende nella sua immacolatezza. In alcuni codici miniati dal IX al XII secolo i colori vivi, splendenti danno forma a questa convinzione. Basti osservare la Bibbia di San Paolo fuori le mura a Roma, dell’870 circa, ancora classica nell’impostazione e nel colore terso, per convincersi con quanta tranquillità la visione positiva della storia umana, grazie al sacrificio dell’Agnello e dei suoi seguaci, fosse diffusa, entrando gioiosamente nell’arte. Giovanni, l’autore, infatti vedeva cose di luce, non di tragedia. La tavola di Bosch lo descrive vestito di rosa mentre contempla, scrivendo, la Vergine cinta di sole sullo sfondo di un mondo azzurro, nuovo. E Matisse nel suo Albero della vita, incanta di verde le foglie, ognuna delle quali sembra essere una creatura. Non è un mondo cupo, quello dell’Apocalisse, anche se il dolore non è nascosto. Ma è il trionfo dell’Alfa e dell’Omega, del tempo che inizia e che finisce per non finire, come un marmo del IV secolo porta scolpito, nella semplicità essenziale di un monogramma. Di questo tempo è signore il Cristo. Per questo lo si raffigura in maestà, come nelle oreficerie limosine del Duecento, lucente e rivestito d’ oro. Che dura per sempre.