Viaggio nella memoria
Uno spettacolo sulla Shoah della Kibbutz Contemporary Dance Company
«C’è un tempo per ogni cosa» recita una voce fuori campo. E la citazione biblica del libro del Qoelet prosegue: «C’è un tempo per il lutto e uno per la gioia, un tempo per parlare e un tempo per tacere, un tempo per la guerra e uno per la pace». Riecheggia quest’ultima parola in chiusura di Aide memoire, spettacolo che evoca la Shoah. E il derivato condizionamento della memoria generato dagli sconquassi fisici e psicologici dell’Olocausto sulle generazioni posteriori.
Gira il mondo da oltre quindici anni questo spettacolo della Kibbutz Contemporary Dance Company, acclamata compagnia israeliana, ma con danzatori di diversa provenienza, nata e diretta dal 1970 al ’96 da Yehudit Arnon una sopravvissuta al lager nazista. Aide memoire (Aiuto alla memoria) porta la firma di Rami Be’er, subentrato alla direzione artistica, e nasce da domande poste dal coreografo a dei sopravvissuti che volevano dimenticare il passato. Rappresenta così un monito affinché gli orrori non si ripetano.
La danza di Rami Be’er sfugge alle etichette: ora spasmodica e selvaggia, come a sollecitare furie ancestrali, ora controllatissima nelle armonie che tracciano lo spazio, ora fluida e avvolgente nella quiete poetica delle sequenze. Evocativa al di là di ogni racconto, ma molto fisica e sensuale per farsi incasellare nel territorio dell’astrazione di tanta danza contemporanea. Pur lontana dal voler descrivere, la coreografia di Aide memoire richiama immagini e visioni del dramma attraverso una costruzione astratta che esplora le relazioni interpersonali.
Sono stati d’animo carichi di tensioni oscillanti dalla rabbia al lirismo, che esplodono o si placano dentro un quadro visivo e sonoro di grande impatto. Movimenti e sequenze evocano sentimenti di paura, disperazione, sopraffazione. Trasmettono con forza l’indelebile sofferenza, lo spirito di sopportazione, la resistenza, la tensione alla sopravvivenza del genere umano.
Tutto questo attraverso una danza prevalentemente corale con momenti di intensi duetti in forma di dialogo e di conflitti amorosi, a tratti sensuali, e con assoli riassorbiti nel gruppo. Il ritmo dei corpi assume un andamento liturgico, disegnando nello spazio linee e punti d’attrazione. Lo si deve alla sapiente drammaturgia di una teoria di luci e di una schiera di pannelli frontali dai quali fuoriescono delle fessure usate alternativamente come scalini, muri da scavalcare, pareti da arrampicata per lunghe processioni che sembrano sospese nel vuoto.
Percosse all’unisono le pareti diventano anche grancasse da battere per dare sfogo all’ira, al dolore. Ma il loro uso si addensa di altre immagini che rimandano ai vagoni dei treni per la deportazione, agli stanzoni delle camere a gas, alle recinzioni. Complici una voce che ripete “raush”; l’amalgama musicale con brani di Dowland, Laibach, Stockhausen e Kronos Quartet; rumori di ferraglia e suoni vari. I danzatori si inerpicano; appaiono e scompaiono tra un interstizio e l’altro della parete; avanzano e indietreggiano di spalle e in rovesciamenti per terra; si fissano come bassorilievi. Uno di questi sembra imprimersi quale icona di un sacrificio universale sopra un piedistallo di quel muro che altro non è che l’orizzonte mentale della memoria.
Aide memoire coreografia, scenografia, luci Rami Be’er; design del suono Alex Claude, costumi Lilach Hazbani, Efrat Roded. All’Auditorium Parco della Musica di Roma.