Viaggio nei campi di accoglienza in Pakistan
Storie di quotidianità tra volontari che attraverso aiuti di varia natura provano a restituire speranza e normalità. Si lavora per la ricostruzione: servono le case per ripararsi dal freddo glaciale
L’acqua è defluita, il fango si è indurito, ma sul terreno sono rimaste le macerie delle case e soprattutto sono rimaste le famiglie che in quelle case abitavano e che ora vivono invece sotto una tenda. L’alluvione che, nell’agosto scorso, ha travolto interi villaggi nel Nord del Pakistan ha portato via tutto, il poco che si è riusciti a salvare o che è stato ricevuto dalle tante organizzazioni umanitarie è tutto radunato sotto quei teli che non sono sufficienti a riparare tanto materiale dalle rigide temperature invernali. Servono coperte, ma servono soprattutto case, mura, tetti che riparino e che restituiscano nuovamente una vita alle migliaia di sfollati. Una donna di 70 anni, ora trasferita in un campo vicino Islamabad, racconta: «Non posso dormire di notte e sento un freddo terribile perché non ho coperte sufficienti e penso sempre a come potrò ritornare a vivere una vita normale».
I bisogni sono innumerevoli; alcuni, come viveri, coperte e vestiario, sono scontati; altri al primo impatto un po’ meno, ma ripensandoci si comprende che nessuno vuole essere bisognoso a vita e che si deve guardare al futuro. E così ecco i contadini che cercano di reperire sementi per un nuovo raccolto e una famiglia che chiede una rete da pesca per provare a riaprire il suo negozio di pesce.
Si insegue la normalità soprattutto fra i più piccoli. Nel campo di accoglienza nella provincia del Sindh, al sud del Paese, che accoglie circa 4 mila persone, i bambini nel pomeriggio si trasferiscono nella vicina scuola del governo, dove un’insegnante retribuita da una Ong impartisceimparte le sue lezioni. La scuola, pur nel disagio, continua a restare sempre un riferimento. E poi ci sono i giocattoli, merce preziosa che restituisce sorriso, sogni e favole pur in una situazione quanto mai precaria. La solidarietà non ha conosciuto sosta in questi mesi. I giovani del Movimento dei focolari, ad esempio, hanno acquistato cibo, maglioni, creme, prodotti igienici per le screpolature da freddo, coperte e li hanno distribuiti ai trecento bambini con cui sono in contatto in questo campo. Un ragazzo è riuscito a recuperare 25 paia di scarpe facendo una raccolta nel vicinato, non certamente benestante.
Oltre ai beni poi si sono costituiti gruppi di aiuto e di ascolto in un campo vicino Karachi: sono l’antidoto per condividere depressioni, smarrimento, paure, immagini di quei giorni che tornano come incubi costanti. E qui anche i poveri si danno una mano: spesso ad intervenire sono proprio loro. Non possono portare aiuti materiali, ma possono sostenere ascoltando e magari cantando con loro e danzando. Ci si aiuta senza guardare all’appartenenza religiosa. E così sono i cristiani a recapitare viveri alle famiglie delle comunità musulmane e indù, magari proprio nei giorni delle rispettive festività religiose.
Le strade rimangono comunque impraticabili e questo rende difficoltoso raggiungere i campi. A tutto ciò si aggiunge una situazione sociale sempre precaria che talvolta mette a rischio gli stessi volontari; ma non si demorde anche quando è difficile organizzare gli aiuti, come a Risalpur, cittadina a Nord di Islamabad, dove la visibilità, per la persistente nebbia invernale, è scarsa e il gelo rende insidiose le vie di comunicazione. Raccontano alcuni volontari: «Pur con il poco tempo che avevamo a disposizione non potevamo non andare nelle famiglie cristiane alluvionate per festeggiare con loro Natale».
C’è poi la gratitudine di chi riceve. che commuove chi distribuisce. «Siamo andati a Sikanderabad, nei dintorni di Hyderabad con un furgone carico di ogni ben di Dio. La gente ci aspettava con uno scontrino per ritirare i pacchi. Erano docili, amabili, nessuna ressa, ma solo saluti calorosi».
C’è anche chi non ce la fa, ma continua a voler essere dignitoso. Misna Mishma era appena entrata in coma a seguito di una seria operazione al cervello, quando si è ritrovata sfollata insieme a tutti per le gravi alluvioni. Per diversi giorni è rimasta senza assistenza medica, senza le medicine necessarie. In coma è rimasta parecchie settimane, dopo essere stata tratta fuori dal fango ancora viva, come per miracolo. I nostri volontari hanno fatto di tutto per aiutarla, ma nonostante l’iniziale miglioramento, gli aiuti internazionali e l’assistenza dei medici, il suo stato non sembra progredire, per cui i genitori hanno scelto di portarla al villaggio, lasciando ad altri la possibilità di usufruire dell’assistenza.
Ora però si pensa soprattutto a ricostruire le case e le infrastrutture. Si cerca di ricostruire la speranza in un domani, di accettare il presente e guardare al futuro. Si ricomincia da capo, ancora una volta.