Viaggio a Leopoli, dentro la carovana di pace in Ucraina
Giovedì 31 marzo: sono le 16 e devo staccare dallo smart working per portare in garage i 20 scatoloni che abbiamo preparato e catalogato ieri sera. Alle 17.30 passa l’amico Mario di Carpi per caricare tutto (me compreso) … ma l’ascensore è rotto! Sette piani di scale: impossibile! Arrivano i miei figli e mio cognato, anche una vicina porta giù una scatola: si parte!
Carpi: ritrovo l’amico Marco e conosco l’” altro” Giulio, i miei compagni di viaggio. Carichiamo all’inverosimile il pulmino 9 posti a noleggio pagato dall’azienda di Marco (senza questo aiuto non avremmo saputo come partire). Salutandomi, il caro Mario (che mi ha scarrozzato da Bologna) mi dice “aspettati di tutto”: una saggia profezia.
Sono le 11 circa quando ci presentiamo a Gorizia nella casa in ristrutturazione degli amici Chiara e Simone. I loro 2 figli sono già a letto ma ci accoglie un simpatico gatto… dopo una tisana e 4 chiacchere ci prepariamo per qualche ora di sonno ma chi dorme di sopra deve salire usando una scala da cantiere a pioli!
Sveglia alle 5, caffè, spazzolino da denti e poi via al ritrovo delle 6.00 per la partenza della Carovana. Si riuniscono gli equipaggi: conosco Paolo e Maria (focolarini e sorridenti…) venuti da Abbiategrasso insieme ad altri 7. Cominciamo a conoscere anche gli organizzatori: Giampiero, Elena, Sara… vengono comunicate alcune istruzioni e sui pulmini si attacca la targa magnetica “humanitarian aid #stopthewarnow”.
Alle 7 di venerdì 1 aprile si parte e iniziamo la collezione di vignette autostradali… alla fine ne acquisteremo 7, per fortuna si possono prenotare online. Slovenia, Ungheria poi Slovacchia e Polonia… ma l’impressione, dal finestrino, è di una sola terra, l’Europa, non solo perché unita da confini che si attraversano senza dogane e da una sola moneta, ma perché c’è una storia, una cultura, il senso di un cammino che, con tanta sofferenza, porta verso l’unità.
Tac, tac, tac: queste le indicazioni per raggiungere la camera che ci dà la signora dell’ostello presso cui abbiamo prenotato su Booking… la lingua dei gesti, in assenza di un idioma comune, va benissimo! Doccia e branda in un monolocale più che dignitoso dopo qualche telefonata alle famiglie che ci seguono da casa. La sveglia è alle 3 perché già alle 4 dobbiamo presentarci al confine con l’Ucraina. Alle 2.45 però dai cellulari parte il suono angosciante dell’allarme aereo (diffuso da una app specifica che l’organizzazione ci ha chiesto di installare)… un primo assaggio della vita in un Paese in guerra.
4 ore per passare la frontiera: la stima degli organizzatori si rivela accurata. E per fortuna che non hanno controllato la numerazione degli scatoloni: nonostante l’impegno soprattutto di Marco e sua moglie Giulia con i loro amici fra le liste inviate e le scatole c’è qualche incongruenza. Con fatica riusciamo a ricomporre la colonna dei mezzi poco oltre il confine. Qualcuno acquista una SIM locale, un caffè (americano…!), poi finalmente rotta per Leopoli verso i centri dove scaricare i beni umanitari.
Attraversiamo foreste di bellissime conifere e pittoreschi paesi con casette dai tetti spioventi tipo Monopoli e chiese dai tetti incredibilmente dorati. Ci accompagnano sempre pioggia e freddo. Solo i posti di blocco con sacchi di sabbia, cavalli di frisia e qualche soldato ci ricordano che siamo in guerra.
Sono le 11 circa di sabato 2 aprile quando, dopo un percorso un pochino tortuoso, con l’aiuto dei volontari svuotiamo i pulmini. Le TV e i reporter documentano tutto. Con noi c’è anche una troupe di RAI3 con il simpatico Samuele Amadori che mi confida di aver dovuto insistere per ottenere questa trasferta. Qui tutti sorridono, non solo gli amici focolarini di Milano: vediamo un primo concreto e consistente risultato del nostro sforzo.
C’è molto traffico per strada (ma non dicevano che erano finite le scorte di carburante?) e tanta gente indaffarata a piedi: Leopoli (L’viv in ucraino) è popolosa ma adesso ancora di più per l’ondata di profughi (200.000 accolti in tutte le strutture disponibili: palestre, scuole, chiese…). Il pavé fa tremare il pulmino vuoto e bisogna stare molto attenti alle improvvide manovre di pedoni distratti, ai filobus e agli autisti arrembanti. Anche qui sacchi di sabbia che indicano gli scantinati trasformati in rifugi e ai check point i militari armati controllano i passaggi: niente foto, si raccomandano i nostri, altrimenti si rischia di essere fermati!
Ci accoglie, per qualche ora di riposo, la palestra del seminario, un bell’edificio con l’immancabile cupola dorata. Mangiamo qualcosa e poi vengono stese delle moquette per riposare. Faccio un po’ conoscenza con vari altri partecipanti poi mi decido: mi sdraio in terra con giaccone, guanti e berretto e riesco addirittura a dormire!
Alle 15 tutti nella sala convegni per un incontro con le autorità. Inizia un rappresentante del sindaco che dice di amare l’Italia e di essere dispiaciuto per l’eliminazione ai mondiali… ringrazia, come faranno tutti, per la nostra presenza e vicinanza e conclude dicendo che credono nella vittoria e pregano Dio per questo. Mi chiedo quale preghiera ascolterà Dio visto che anche i russi lo fanno… e di quale vittoria si parla… non c’è vittoria, mi sembra, ma solo vite spezzate.
Poi l’ambasciatore italiano, il Vescovo, un sacerdote della Caritas locale e una donna molto in gamba che guida una organizzazione educativa ucraina. Ma dopo le prime preghiere e segni di croce alcuni si alzano ed escono: occorreva tenere più presente che (per fortuna, a mio avviso) l’uditorio è molto variegato, un caleidoscopico insieme di società civile e religiosa unita dall’anelito alla pace.
Finalmente si parte per la stazione dove possiamo caricare i profughi e partire… e inizia qui la parte più dura del viaggio. Mentre stiamo arrivando di nuovo il lacerante suono dell’allarme aereo… ma la gente sembra abituata e ciascuno continua per la sua strada. La breve marcia per la pace prevista viene rimandata e ci fanno concentrare nell’atrio della stazione che brulica letteralmente di persone con sguardi smarriti e molta tristezza.
Con alcuni incaricati locali (meravigliati per i numeri della carovana: 200 persone e 60 mezzi circa!) si cerca di fare il match tra “domanda” e “offerta”: una partita molto difficile. Ci viene assegnata una intera famiglia di 7 persone e quindi, visto che il pulmino è da 9 posti, trovo un passaggio per Bologna su un altro mezzo. Chiediamo all’amica Carla dei Focolari una ulteriore conferma se li possiamo consegnare all’hub per rifugiati di Isola della Scala (VR). Carla, consigliera comunale e provinciale di Verona, doveva venire con noi ma all’ultimo ha rinunciato per difficoltà in famiglia: ci apre però le porte dell’accoglienza tramite la protezione civile e la provincia.
Usciamo e al punto di ritrovo la famiglia non si presenta… hanno preso un altro mezzo per fuggire! Anche quelli che avrebbero dovuto caricare me nel frattempo hanno caricato altri… aspettiamo, al freddo (freddissimo!), che la convulsa e complessa situazione si evolva e ci sia anche per noi qualcuno da caricare. I volontari fanno un lavoro veramente difficile e alla fine ci presentano 4 donne, un nucleo di 3 (nonna, madre e figlia) e una donna sola. Volti tirati di stanchezza e qualche sacchetto di plastica con cibo e vestiti. Lo sguardo è pieno di apprensione, tra paura e speranza…
Finalmente, verso le 20 locali (19 italiane), partiamo. Raggiungiamo il confine e ci mettiamo in coda, ignari di quello che ci aspetta. I passaporti li avete vero? La ragazza però, minorenne, ha solo un certificato di nascita. Durante l’attesa, da un pulmino dei nostri di fianco a noi, viene fatta scendere una donna in lacrime col suo bambino e le poche cose che aveva.
Gli ufficiali sono inflessibili: non ha l’originale del passaporto ma solo una foto. Poi viene il nostro turno e manca il permesso del padre per far uscire la ragazza che è con noi. Piano piano, con l’aiuto del traduttore di Google, scopriamo che da 13 anni non hanno notizie del padre e non hanno un suo telefono. Le proviamo tutte, persino messaggi audio disperati su facebook a famigliari ma non c’è niente da fare… dopo 5 ore di attesa con un freddo agghiacciante una donna in mimetica le preleva e le porta via. Rimane con noi solo Elena…
Anche l’entrata in Polonia è difficile, l’ufficiale mi urla che non dovevo avanzare col pulmino e mi fa tornare indietro… passiamo ma col cuore molto pesante. Ci accoglie una volpe argentata che, in mezzo alla tormenta di neve, attraversa la strada. Sono ormai le 2 di notte e decidiamo di fermarci a dormire. La speranza è che grazie agli organizzatori si possa caricare altri: non ci rassegniamo a tornare con solo un rifugiato.
Nonostante l’ora riusciamo ad avere indicazioni per la mattina seguente e cerchiamo quindi una sistemazione per qualche ora di sonno. Dopo 2 hotel completi veniamo indirizzati a un albergo a 2 stelle che si rivela una vera e propria bettola dove paghiamo uno sproposito per 2 camere.
La stanchezza prende il sopravvento… ripartiamo dopo 4 ore circa per raggiungere il posto indicato: si tratta di un centro commerciale adibito a hub per i profughi. Dentro tanta confusione, fra rifugiati e organizzazioni umanitarie. Alcuni volontari della protezione civile italiana e anche un volontario (pittoresco quanto improbabile) con cui ci hanno messo in contatto ci presentano 5 persone: un nucleo famigliare di 3 (mamma 40 anni con due figli di 8 e 16 anni) e due donne, 31 e 53 anni.
Il bambino piange, è molto impaurito. Gli sorrido ma distoglie lo sguardo… vuole la mamma. La donna di 53 anni stringe al petto un fagotto che sembra un bambino. Chiedo ai volontari: mi sorridono, si tratta di un peluche! Quando la vita viene sconvolta ci si aggrappa a qualunque cosa…
Caricate le poche borse e valigie salutiamo i bravissimi volontari della Protezione Civile (il loro lavoro non è riconosciuto dal governo polacco che vuole dimostrare di non aver bisogno di aiuti esterni per gestire la situazione) e l’amico Giulio prende il volante con il supporto di una bibita energizzante!
Sono le 10 di domenica 3 aprile e siamo “on the road again”. Decidiamo, per guadagnare una mezz’ora circa, di non passare per la Slovacchia ma di rientrare attraverso Repubblica Ceca e Austria. Fra noi 3, sempre seduti stretti stretti davanti, ormai si scherza e si ride spesso: serve ad aiutare chi guida a rimanere sveglio e a non pensare troppo ai drammi del pezzo di umanità che portiamo con noi e alla tragedia che abbiamo visto in Ucraina.
Inizia allora una ridda di ipotesi su dove portare queste persone. Le telefonate e i whatsapp si susseguono. Passiamo da Verona e li affidiamo a Carla? Alcuni di loro però vogliono andare a Roma, una deve ricongiungersi con la mamma a Tropea, a un’altra hanno promesso accoglienza in un comune laziale in provincia di Latina (ma il sindaco al telefono non ci sembra molto al “pezzo”…). Forse allora meglio andare a Bologna e mettere sul treno chi deve proseguire… ma l’ora prevista di arrivo in stazione a Bologna è circa mezzanotte!
Alla fine la soluzione migliore sembra Carpi: tramite segnalazioni varie veniamo a sapere della disponibilità immediata ad accogliere 2 persone da parte di una famiglia del posto. Gli altri 4 possono essere ospitati per qualche ora di sonno direttamente a casa di Marco (la moglie e i bambini sono in questi giorni dai suoceri) per salire sul treno per Roma lunedì mattina presto.
Determinante l’aiuto telefonico di Alla, ucraina che vive da tempo a Bologna, che ci aiuta a far capire il programma ai passeggeri e anche a tradurre per noi le loro domande e la loro approvazione.
Mentre ci accoglie il fiabesco paesaggio dei monti in Austria (conifere verdi con spruzzate di neve bianca) anche l’ultimo tassello del tetris si incastra: una farmacia 24h di Carpi si impegna a fare i tamponi (necessari per prendere il treno) a tutti i profughi quando arriveremo tra l’una e le due di notte!
Il viaggio si conclude così all’una di notte al casello di Carpi: qualche sorriso abbozzato, qualche gesto impacciato di saluto e tanta emozione. Provo a dare un sacchetto di caramelle al bimbo che prima si ritrae spaventato ma poi mi sorride…
Veniamo in seguito a sapere da Marco che i tamponi sono tutti negativi, che il viaggio della speranza è continuato verso Roma per 4 di loro e che come previsto sono stati accolti e aiutati al loro arrivo. Dei contributi (tanti!) arrivati per l’impresa è rimasto denaro per pagare i biglietti del treno e lasciare anche a loro qualcosa per la prosecuzione del viaggio.
Quando ho aderito alla spedizione l’ho fatto di getto senza pensare troppo: mi dicevo che se mi fossi fermato a pensare a se e dove avrei dormito oppure alla stanchezza, al mangiare, alle ore al volante ecc. non sarei partito. Le difficoltà sono state tante e pesanti ma insieme le abbiamo superate. Marco e Giulio sono stati infaticabili e generosi, l’affetto e l’aiuto da casa ci ha sostenuto per tutto il viaggio, ci ha aiutato a trovare le soluzioni e i nostri passeggeri hanno sopportato il disagio delle ore consecutive di strada senza mai un lamento.
In me me rimane il fatto importante di aver collaborato insieme a tante sigle di organizzazioni e movimenti di provenienze e culture diverse per un unico scopo: la Pace, la Pace vera, non quella basata su un fragile equilibrio di potere e di forza, non quella basata sulle armi, non quella dell’industria bellica con i suoi disumani interessi, non una semplice assenza di guerra, ma la Pace basata sulla nonviolenza, sul riconoscimento dell’altro, sul dialogo, sulla diplomazia e sul disarmo.
Questa guerra in particolare (fra le tante che feriscono l’umanità) ha suscitato molte discussioni e prese di posizione in Italia, soprattutto sul tema dell’invio delle armi, dell’esistenza della NATO, dell’unione europea, del diritto di difendersi da un’aggressione ecc.
Io sono contrario alle armi e sostengo la nonviolenza (pensiero che Gandhi ha ripreso dal Vangelo), quindi non posso certo essere a favore dell’invio di armi in un paese in guerra (contrario, fra il resto, all’articolo 11 della costituzione e alla legge 185/90). Assieme al pensiero di papa Francesco (inequivocabile a mio avviso) mi guida la figura di Igino Giordani (cofondatore del Movimento dei Focolari), che da ufficiale si recò disarmato al fronte nella grande guerra riportando gravi ferite e fu in seguito tra i firmatari della prima proposta di legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare.
Detto questo mi pare che nel “mainstream” mediatico e culturale attuale sfugga la visione d’insieme: è come se di fronte a Guernica, l’opera di Picasso sul bombardamento dell’omonima città nel 1937, ci si soffermasse sul tratto usato dall’autore oppure sulla tecnica adottata o altri particolari senza cogliere la tragedia che viene rappresentata plasticamente con grande efficacia.
Se si alza lo sguardo e non si pensa solo alle forniture di gas dalla Russia o agli interessi della Cina oppure all’immobilismo dell’ONU si può vedere la catastrofe della guerra dove le armi uccidono senza fare distinzioni o mediazioni.
Questa coscienza e questo sguardo deve a mio avviso guidare un vero e sincero impegno per la pace e il disarmo a tutti i livelli, un impegno non solo testimoniale ma istituzionale e sostenuto da scelte e fatti concreti.
Insieme a Marco e Giulio posso dire che, nel mio piccolo, ho messo un mattone in questa costruzione. Quel poco che abbiamo visto in questo viaggio insieme con la Carovana della Pace non fa che confermare questo mio desiderio di impegno e continuerò a fare quanto mi è possibile per un futuro di pace vera per i miei figli, mia nipote Camilla e tutta l’umanità lavorando insieme a tutti coloro che condividono questa inquietudine.