Viaggio attraverso il buio
Solz?genicyn e Primo Levi sono magistrali nel descrivere i gironi infernali dei gulag e dei lager, di cui hanno fatta esperienza diretta; altri scrittori invece, per immedesimazione in quella altrui, arrivano a traguardi pressoché identici. Tahar Ben Jelloun è fra questi ultimi, e Il libro del buio – la sua più recente fatica letteraria, ispirata a fatti reali e alla testimonianza di un ex detenuto della prigione di Tazmamart – ne è la dimostrazione. Tazmamart, ovvero il più terribile carcere marocchino, dove nel 1973 vennero rinchiusi per essere sottoposti a torture disumane – fra cui quella del buio più assoluto – alcuni militari colpevoli di aver tentato, nel luglio 1971, un colpo di stato contro re Hassan II, nella sua residenza estiva a Skhirate. Fu un’ingiustizia (la vendetta di stato) sommata a un’altra ingiustizia (l’uccisione di innocenti). Tanto più che molti di quei militari avevano preso parte inconsapevole al golpe. Solo pochi riuscirono a sopravvivere fino alla scarcerazione, avvenuta nel 1992. Fra loro Aziz Binebine, il tenente Salim del romanzo. Che alla sua uscita in Francia, dove l’autore risiede da anni, ha suscitato apprezzamenti ma anche polemiche per essere stato considerato un tardivo atto di denuncia dello scandalo Tazmamart. Polemiche però fuori luogo, se si considera che l’intento di Ben Jelloun, in quanto scrittore, era di prendere sì le mosse da un fatto di cronaca, ma trasformarlo in una vera opera letteraria capace di parlare ad ogni uomo. La finzione infatti, sostiene l’autore, “ha la capacità di toccare le emozioni della gente meglio di una cruda testimonianza La letteratura ha un potere che la realtà non possiede”. Salim, l’io narrante, sepolto vivo nella sua tomba di tenebra, non si ar- rende: là dove la vita perde ogni appiglio, dove il corpo regredisce verso il più animale istinto di sopravvivenza, inizia per il giovane tenente un percorso interiore che intreccia l’ascesi mistica con la fantasia. Dopo esser disceso negli inferi della disperazione e aver fatto – per resistere – piazza pulita di tutto, compresi i ricordi più belli e lo stesso odio, capaci di sfibrarlo, tocca a lui scoprire il Dio vicino e insospettate oasi di pace. Sicché il “libro del buio” che registra le indicibili sofferenze di un condannato potrebbe definirsi anche “libro della luce”, della vittoria dello spirito sulla barbarie. Ridotti a pure voci, voci però che animano quel mondo notturno della loro più nascosta forza vitale, ci sono gli altri compagni di sventura. Da Wakrine, lo specialista degli scorpioni; a Karim, l’uomo che sa contare il tempo; a Achar, anima maligna; a chi finge di cucinare un piatto al giorno e a chi rimpiange all’infinito di non poter fumare. Lui invece, Salim, è il narratore dalla cui memoria sgorgano libri e film, fiabe e poesie, che cantano il potere salvifico della fantasia. Grazie alle pressioni dell’opinione pubblica internazionale, dopo 18 anni, egli scamperà al suo inferno, assieme a pochi altri. Ridotto a un’ombra, segnato per sempre ma non piegato, con la sua dignità intatta. Un libro terribile e al tempo stesso di rara bellezza, da consigliare a tutti. Una colomba chiamata libertà Un episodio gentile fra i tanti orrori di Tazmamart: attraverso la presa d’aria della cella, una colomba cade nel buio fitto dove vivono i prigionieri. Un segno di Allah? Viene adottata, le si dà il nome di Hourria, libertà. Per un mese la colomba, misteriosamente docile, condivide la sorte dei reclusi, che tuttavia un giorno decidono di restituirle la libertà Mi sarebbe piaciuto (è Salim che parla) legarle alla zampa un messaggio, una richiesta d’aiuto, solo per far sapere che non eravamo tutti morti. Ma non avevo né carta, né matita, né uno spago. Allora, come in un sogno, le ho parlato: – Hourria, quando avrai trovato la libertà, quando sarai nella luce e volerai nel cielo, fermati un istante sulla terrazza di una casa, la mia, quella in cui sono nato, quella in cui vive mia madre. È a Marrakech, nella Medina. La riconoscerai, è l’unica terrazza dipinta in azzurro, mentre tutte le altre sono rosse. La porta è sempre aperta. Scendi e vai in cortile. Al centro, ci sono un albero di limone e una fontana. A mia madre piace quel punto per riposarsi. Va’ da lei e posati sulla sua spalla. Sono sicuro che capirà che sono io a mandarti. Basta che la guardi e lei ti leggerà negli occhi il mio messaggio: “Mia cara mamma, sono vivo, ti voglio bene, non stare in pena per me. Grazie a Dio, grazie alla fede, me la caverò. Penso spesso a te. Mi rimprovero di averti fatto del male agendo come tu sai. Abbi cura di te, è importante. Di’ al mio fratellino che penso molto a lui, di’ a Mahi che ho imparato a giocare a carte e che quando uscirò gli dimostrerò che sono un campione. Di’ alle mie sorelle che le penso. A prestissimo. Che Dio ti protegga per tutti noi, diadema sopra le nostre teste, faro di grazia e di luce”. Tutti volevano fare lo stesso, affidarle dei messaggi, che fosse testimone della nostra disperazione