Via Padova, povertà e degrado
Non si può comprendere cosa stia succedendo se non si cerca di capire le vite spericolate di tanti ragazzi immigrati.
I fatti sono noti. Ahmed Abdel Aziz el Saye, di origine egiziana, è stato ucciso in via Padova a Milano da altri ragazzi, probabilmente sudamericani, della sua stessa età, dopo una lite sfociata per futili motivi. La rabbia di amici e connazionali ha preso la forma di una guerriglia urbana combattuta via per via. Oltre quattro ore di rivolta e di devastazione che hanno trasformato uno dei quartieri periferici a più alta concentrazione di immigrati in una vera e propria banlieue parigina. Fin qui i fatti.
Poi è cominciato il dibattito di rito: qualcuno ha chiesto rastrellamenti casa per casa, qualcuno ha additato la grande concentrazione di stranieri nella zona, qualcuno ha ravvisato l’ombra lunga delle gang di ragazzi stranieri che in questa parte della città comincia ad organizzarsi. Ma non si potrà mai capire cosa sta succedendo, se non si avvicina lo sguardo, se non si entra in quelle strette e degradate vie, se non si cerca di comprendere le vite spericolate di tanti ragazzi immigrati che arrivati con un sogno hanno trovato solo sconfitte ed emarginazione.
Via Padova è una di quelle vie lungo le quali i tassisti si rifiutano di transitare dopo una certa ora della notte. Zona multietnica per eccellenza, quasi una piccola Belleville cisalpina, ha un patrimonio abitativo di tipo popolare, organizzato secondo il tradizionale schema della casa a ringhiera. Sui ballatoi delle vecchie case di immigrazione, la storia dell’avvicendarsi di successive ondate migratorie si legge come una stratigrafia: ai piani bassi è rimasta qualche famiglia cinese, che ha convertito il proprio laboratorio in appartamento, salendo si incontrano latinoamericani, egiziani, filippini e poi, arroccati ai piani alti, gli ultimi vecchi residenti italiani rimasti. La presenza di famiglie immigrate è cresciuta nel tempo a ritmo intenso, complice la disponibilità di alloggi a prezzi relativamente bassi. Il bisogno di trovare una casa ha indotto molti immigrati ad accettare di non avere un regolare contratto di affitto o di coabitare in sovrannumero in piccoli appartamenti, molti proprietari a trarne grande profitto.
Per molti anni il quartiere ha trovato un suo equilibrio. Racconta Sumaya Abdel Qader che abita nel quartiere e partecipa alle attività dell’associazione Amici del Parco Trotter come «via Padova sia generalmente una via tranquilla per chi vi abita. Passeggio spesso con due piccole bambine nella via, frequento i bar, negozi, ristoranti. Con ciò non dico che non ci sono problemi. Quelli ci sono purtroppo, causa la lontananza delle istituzioni e alle sbagliate politiche attuate, o meglio dire non attuate». Per molti anni l’azione quotidiana e intensa delle numerose parrocchie, delle associazioni, delle scuole di frontiera ha impedito che il degrado si trasformasse in conflitto e la marginalità in violenza. Senza le mense dei frati, l’impegno degli insegnanti, il coraggio dei volontari della vicina Casa della Carità di Don Colmegna questa città sarebbe già esplosa – dicono in forme varie alcuni dei commentatori più autorevoli. «Quando un lembo di città non è governato con lungimiranza, ma abbandonato alle logiche infernali dell’incuria, della lacerazione, della prepotenza diventa facilmente terreno di coltura per le patologie più gravi del disagio sociale» (editoriale della Diocesi di Milano).
I fatti di questi giorni segnalano un cambiamento di scala. Certamente è necessario ripristinare condizioni di legalità: da un lato, attraverso un più capillare controllo di tutte quelle forme di illegalità che alimentano la sfiducia di molti residenti (spaccio, risse frequenti, prostituzione). Dall’altro, è cruciale intervenire su ogni sfruttamento (affitti privi di contratto, speculazioni intorno ai “posti letto”) e negazione dei diritti degli stranieri, tra i quali il diritto ad un luogo di preghiera dignitoso.
Non può bastare il lavoro delle forze dell’ordine, una politica indistintamente repressiva, è urgente un intervento pubblico sul quartiere a tutto campo. Perché non promuovere un esercito di educatori piuttosto che di militari? – si domanda il documento della Diocesi. Bisogna ripartire dal riconoscimento dei molti segni di speranza e delle diverse realtà vive del quartiere e da politiche di integrazione dei giovani immigrati, condizioni necessarie per ogni convivenza positiva e al riparo da violenze e rivolte.