Via Padova, la città che vogliamo

Quell'immenso bisogno di creare comunità che emerge dalle difficoltà.
milano trotter

«Perché non promuovere per davvero un “esercito” di educatori piuttosto che di militari?». Arriva come un fendente dall’arcidiocesi ambrosiana l’alternativa all’esercito che da giorni pattuglia via Padova, dove Ahmed Mamdouh Abdel Aziz El Sayed Abdou, il garzone panettiere egiziano di 19 anni, è stato ucciso da ragazzi centramericani. «Politiche sociali condivise, educatori di strada è quello che serve adesso, subito». Don Piero ha una controproposta: «Il ministero ha inviato qui a presidiare la zona 150 poliziotti. Ne bastano 75 – dice – se ci mandano anche 75 educatori di strada».

 

Gli abitanti di Milano, in maggioranza, non ci stanno a quanto raccontato da gran parte dei media nei giorni che hanno seguito l’uccisione di Aziz. Soprattutto coloro che abitano in quella zona di cui Via Padova fa parte, e in un certo modo raccoglie un grandissimo numero di abitanti provenienti da ogni angolo di mondo. Guerriglia urbana, tensioni tra bande rivali, pericolo per chi ci abita. I network hanno raccontato la rabbia e l’indignazione, la paura e l’esasperazione, ingigantendo un problema che pur esiste e va affrontato. Ma poco hanno raccontato di quanto già si sta facendo con un lavoro “sottotraccia” di integrazione, di convivenza tra etnie che porta alla condivisione, alla scoperta positiva e arricchente delle diversità.

 

Per strada raccolgo idee e impressioni. Quello che pare più vero è racchiuso nel commento di un italiano che abita proprio in via Padova: «Noi abbiamo un’altra idea della nostra città e del nostro quartiere, un’idea per la quale nessun cittadino deve sentirsi straniero». Quasi di fronte al civico 80, luogo dell’uccisione di Aziz, un cancello si apre su un ampio parco verde: il Trotter. Nei suoi viali i genitori accompagnano i figli a scuola. Qui c’è l’istituto scolastico “Casa del sole”, 900 alunni iscritti, metà dei quali figli di immigrati. È un esperimento che dura da anni. Proprio questa scuola multietnica rappresenta per il quartiere una sfida, e racconta con le tante attività proposte, che vedono lavorare quotidianamente genitori e figli di provenienza diversa gomito a gomito, che in questo quartiere si può convivere. «Creare comunità è la testimonianza che la migliore politica della sicurezza è quella di mettere le persone in condizione di potersi guardare negli occhi e parlare». Lo racconta una mamma marocchina, elencandomi una serie di iniziative che vengono vissute attraverso la scuola con i loro figli.

 

L’esperienza dell’istituto, come quella delle tante associazioni e parrocchie che agiscono su via Padova, dimostra che quando si lavora nella direzione della socialità, del riconoscimento e accettazione delle culture, del dialogo, i risultati arrivano. In questa scuola-laboratorio le persone fanno comunità e si sentono più sicure continuando ad essere quello che sono, senza conflitti. Attivi e presenti, dunque, non passivi, o ingenui che non vedono la complessa realtà esistente. E le richieste che rivolgono al Comune sono per ottenere risorse per risanare le scuole, assistere gli anziani, i giovani, i bambini, creare altri spazi di incontro e socialità. Questi con lo scopo di migliorare la vita del quartiere e renderla più sicura dal punto di vista sociale. Solo in questo modo via Padova può vivere. «Non può esserci integrazione se conta solo il denaro, l’affare. Le vie etniche della città – racconta l’architetto-scrittore Gianni Biondillo su un giornale di strada – sono piene di palazzi degradati, di italiani che affittano a stranieri a condizioni disperate. Come può esserci integrazione se prima di ogni cosa conta il denaro?».

 

Di quartiere abbandonato parla anche la curia, che in un comunicato attribuito al card. Tettamanzi afferma: «Quando un territorio, un lembo di città non è governato con lungimiranza, ma abbandonato alle logiche infernali dell’incuria, della lacerazione, della prepotenza diventa facilmente terreno di coltura per le patologie più gravi del disagio sociale». Qui dove sono pressanti le sfide dell’immigrazione, da tempo la Chiesa ambrosiana cerca di promuovere un’articolata riflessione e indica alcune linee costruttive. «Occorre – si legge nel comunicato – una visione complessiva del fenomeno, per guardare agli immigrati non solo come individui, più o meno bisognosi, o come categorie oggetto di giudizi negativi inappellabili, ma innanzitutto come persone, e dunque portatori di diritti e doveri: diritti che esigono il nostro rispetto e doveri verso la nuova comunità da loro scelta, che devono essere responsabilmente da essi assunti».

 

“Via Padova, la città che vogliamo” ha scritto qualcuno su un lembo di lenzuolo. È il grido che arriva da questo quartiere, emblema di una città che non può sottrarsi all’integrazione, alla multiculturalità. Via Padova, da qui può nascere la Milano del futuro. Via Padova, luogo di tantissime associazioni di volontariato che in mille espressioni si adoperano in questo faticoso laboratorio dove la sfida educativa nei confronti dei giovani, ancora più acuta nel contesto della seconda generazione di immigrati, è davvero centrale per le famiglie e per le altre agenzie educative.

 

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