Per una via di dialogo sul gender

In occasione dell'uscita del documento Maschio e femmina li creò. Per una via di dialogo sulla questione del gender nell’educazione, a firma del cardinale Giuseppe Versaldi, prefetto della Congregazione per l’educazione cattolica, e dell’arcivescovo Vincenzo Zani, segretario del Dicastero, ripubblichiamo l'inquadramento storico del fenomeno presentato nel dossier Gender, allegato a Città Nuova 01/2016.

Un po’ di storia

Per millenni l’avventura umana si è basata su un’antropologia binaria: maschio-femmina, uomo-donna. Col tempo, però, sono emersi alcuni esiti problematici, perché la differenza sessuale ha implicato anche discriminazione o contrapposizione. A partire dalla fine degli anni ’60, alcune esponenti del Movimento di liberazione delle donne hanno messo a fuoco le principali forme di oppressione basate sulla differenza di genere: 1) l’oppressione materiale e simbolica dell’uomo sulla donna: da un lato, lui ne controlla il corpo, la sessualità e la generazione; dall’altro, stabilisce una «valenza differenziale fra i sessi», ovvero una gerarchia tra ruoli e attributi maschili e femminili, assegnando a se stesso il lato socialmente più apprezzato. Ad esem­pio, in Occidente, dove la disposizione attiva è più considerata rispetto a quella passiva, l’attività è tradizionalmente messa in conto al maschile e la passività al femminile (da Aristotele a Freud); tuttavia, in alcuni Paesi dell’Oriente, dove il passivo è investito di un valore superiore, esso è assegnato al maschile mentre l’attivo è rubricato dalla parte delle donne (Françoise Héritier); 2) la costruzione di rigide frontiere tra le identità di genere: all’interno dell’organizzazione patriarcale, ciascuno è chiamato ad appartenere a uno o all’altro dei sessi, ogni altra configurazione essendo socialmente sanzionata. Non si tiene in debito conto la vulnerabi­lità di chi nasce con genitali ambigui – bambini intersessuati – o di chi si sente intrappolato in un corpo che non gli corrisponde – transessualismo, oggi rinominato disforia di genere; 3) la produzione di stereotipi di genere (per cui, ad esempio, si suppone che le donne non siano brave in matematica e gli uomini non possano piangere): questi schemi ripetitivi provocano non di rado sofferenza, senso di inadeguatezza e non accettazione di sé, se un uomo o una donna non sono in sintonia con il modello dominante.

Nel corso della storia ne sono nate diverse reazioni. Due in particolare si sviluppano in seno al Movimento delle donne.

Femminismo emancipatorio

Il femminismo emancipatorio o egualitarista, a partire già dalla metà dell’Ottocento, difende l’idea che l’essere umano è uno, razionale e autonomo. La libertà femminile deve passare perciò per l’inclusione delle donne nell’universale umano. Il valore principale di questo movimento è l’uguaglianza giuridica di uomini e donne, tanto che ci si libera dall’idea di una specificità maschile e femminile. La matrice emancipazionista è ripresa oggi dal femminismo di Stato che promuove la parità con strumenti legislativi: quote rosa, trattamenti speciali, affirmative actions. Il femminismo egualitario è in certo senso precursore delle teorie del gender, perché ritiene che sia il genere – ovvero i rapporti di potere e le aspettative legate ai ruoli – a modellare i sessi, assegnando loro un insieme di attributi e di funzioni (per esempio, la divisione tradizionale del lavoro riduce la donna alla riproduzione e affida solo all’uomo la produzione).

In realtà l’emancipazione si rivela per la donna un falso obiettivo, perché lei finisce per rinunciare alla differenza in cambio dell’accesso al mondo maschile. Una donna è costretta perciò a impiegare tutte le sue energie per rientrare nel modello maschile, senza capire che non è lei che non funziona; è piuttosto quel modello che non funziona per lei. Se, infatti, si assimila agli uomini, acquisendone forme di vita, lavoro, pensiero, modi di fare politica o di tessere le relazioni, allora il suo essere donna ricade nell’insignificanza. L’uguaglianza così intesa diventa una trappola: risulta prioritario mostrare che non c’è differenza fra uomini e donne; infatti, le don­ne possono fare tutte le cose di cui sono capaci gli uomini perché non sono inferiori. Ma se si insegna alle donne a smentire l’inferiorità rispetto al modello maschile (mostrando di essere come gli uomini), le si costringe a costruire la rappresentazione di sé intorno all’idea maschile di gerarchia, di chi vale di più e chi di meno, in un orizzonte distruttivo delle relazioni di cui è esperta (Luisa Muraro).

Post-femminismo/post-gender

I gender studies e il postfemminismo, nell’ulti­mo scorcio nel Novecento, affermano che l’essere umano non è uno né due, ma molteplice. Questo vuol dire che è frammentato, nomade, plastico. Il genere separa, per esempio, la percezione di sé (identità di genere) dalle aspettative sociali (ruolo di genere), il corpo (come si nasce) dall’autoidentificazione come maschio o femmina (come ci si sente); fa dell’identità di genere uno schema mentale (psico-sociale) influenzabile dall’educazione e dal sistema delle aspettative in una data società. Promuove infine la trasformazione del tessuto sociale: il regime di genere può infatti essere fatto e disfatto a seconda dei rapporti di forza, riconfigurando per esempio l’istituto del matrimonio o l’ordine della generazione.

In tempi più recenti, al gender si aggiungono il queer (strano, obliquo, che si mette di traverso) e il transgender: l’identità di genere, slegata dal corpo e collegata agli stati interni del soggetto, ammette allora un numero indeterminato di varianti, tendenzialmente numerose quanto lo sono gli individui. In questo contesto, si propone di sostituire i pronomi personali, lei e lui, col neutro plurale (loro) o si evitano le desinenze maschili o femminili optando per un generico asterisco (si scrive allora, per esempio, ciascun*, in modo che ognuno possa assegnare a quell’asterisco il senso che vuole).

Queer

Il queer è la posizione estrema di chi non solo rinuncia alla differenza sessuale (maschio-femmina), ma si slega anche dall’ordine sociale: non pensa ci sia una comunità possibile perché, al proprio interno, i membri sono già indefinitamente differenti gli uni dagli altri: per il queer non esiste, per esempio, una comunità gay compatta e normativa; né è opportuno aspirare al riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali perché, precipitando all’interno del modello tradizionale, esse riprodurrebbero una copia rispetto a un originale eterosessuale. Paradossalmente, il matrimonio gay rafforzerebbe l’immaginario eterosessuale. Il queer non crede alla promessa di un futuro più giusto e pensa all’identità come a un “errore necessario”: si tratta di un errore perché l’identità è un’illusione, un mito; ma è necessario perché l’unico senso che può assumere l’identità è di essere “senza qualità”.

Di fatto, esso appare come il sintomo di un’era malinconica, in cui si configura un’umanità sfiduciata, assorbita in una dittatura dell’indistinto e dell’indifferente ed esposta a un sovraccarico di sensi e possibilità (virtualmente accessibili ma in pratica irreali), che il sistema orientato al profitto astutamente sfrutta per confezionare una indefinita scelta di generi di consumo.

Nelle teorie del genere il soggetto appare determinato dai condizionamenti sociali; meglio, dai rapporti di potere e dai loro imperativi culturali (compreso quello di disfare ogni identità). Se però si considera l’essere umano come esclusivamente sottomesso alle costruzioni sociali, si nega da una parte il suo radicamento in un corpo, e quindi la sua capacità di fare esperienze proprie (non dettate da copioni pronti all’uso); dall’altra si nega anche la possibilità che il soggetto prenda le distanze rispetto ai propri vissuti e alle pressioni sociali assegnando loro un senso personale. In altri termini, sono negati al tempo stesso il corpo che sente e la natura spirituale dell’essere umano.

La proliferazione di identità transitorie e la polverizzazione delle differenze promossa dal transgen­der maschera poi il rifiuto del limite e la paura di riconoscersi finito. Nel suo sogno di essere ogni cosa, esso lascia trasparire la difficoltà ad avere a che fare con la differenza sessuale. La promessa della libertà assoluta (o di un desiderio senza vincoli) paga però un prezzo altissimo: l’instabilità di un’identità fatta e disfatta in continuazione ha un costo psichico e uno stress esistenziale enormi. Si promette libertà, ma si genera infelicità.

Rivendicazione di nuovi diritti sessuali

Alla permeabilità e oscillazione tra i generi è collegata, come conseguenza immediata per la società, la richiesta di “nuovi diritti”: il diritto a scegliere il proprio sesso, nella doppia possibilità di riassegnazione chirurgica o di rettifica anagrafica senza dover completare la transizione biologica; il diritto a essere riconosciuti nei documenti legali come intersessuali e transgender; il diritto a non veder trattata l’intersessualità come una malattia; la depatologizzazione dei disturbi di identità di genere, rinominati «varianti dell’identità di genere»; la difesa delle minoranze sessuali e il diritto a scegliere la propria sessualità senza dover subire discriminazioni; il diritto al matrimonio omosessuale e all’adozione; il libero accesso all’aborto come «diritto umano fondamentale»; infine, il diritto ad avere un bambino senza alcun limite di età o di modo di vita sessuale (omosessuali, single), attraverso l’accesso alle tecnologie riproduttive.

Se queste rivendicazioni sono in parte condivisibili, diventano però inquietanti quando coinvolgono i figli, prodotti in laboratorio combinando il proprio materiale genetico con gameti di anonimi donatori (senza identità e senza storia da trasmettere) e allevati secondo progetti parentali in reti di relazioni sociali tra le più eterogenee.

Tanto più che oggi si va verso una società dove si progetta di generare figli da soli, in laboratorio, con ovulo e spermatozoi tratti dalle proprie cellule. Se questo traguardo non è ancora stato raggiunto, tuttavia le biotecnologie aprono già nuove prospettive, dalla selezione dell’embrione allo scambio di materiale riproduttivo. Si possono congelare ovociti aspettando di decidere cosa farne oppure si può donare lo sperma se si desiderano figli biologici ma non si vuole o non si può crescerli. Il corpo appare sempre più come parte di un progetto biopolitico di riproduzione genetica slegata dalla vita di coppia. «Se io, – si legge in L’amore al tempo dello tsunami – come donna non necessito di altri dal punto di vista biologico per fare un figlio/una figlia, come posso costruire un progetto comune con il mio/la mia partner, che ci coinvolga entrambe?»

Eliminare il “limite” del corpo ci consegna agli scenari grandiosi ed esaltanti di una civiltà della tecnica dove però donne e uomini diventano semplicemente superflui, mentre i diritti dei figli (sempre più prêt à porter) vengono piegati per favorire quelli degli adulti.

Indietro non si torna

La discussione intorno a questi temi è resa più ostica dal fatto che facilmente viene condotta su un piano puramente emozionale: la natura della questione, che intercetta la parte più intima e vulnerabile della nostra identità e del nostro essere in relazione, scatena spesso reazioni violente anziché fornire ragioni consistenti. Alla fine, contano solo i rapporti di forza, cioè i voti, spesso influenzati da abili campagne mediatiche.

Appare chiaro, però, che indietro non si torna: non è possibile ignorare o coprire una realtà complessa, disarticolata e spesso ambigua, e, ancor di più, non si può cedere alla tentazione di stigmatizzare o escludere chi non entra nel binarismo sessuale. Alla base della richiesta di nuovi diritti c’è spesso una sofferenza e un’esigenza che vanno ascoltate, comprese, accolte. Sia a livello dei rapporti quotidiani, sia a livello di leggi e diritto. Questo però non implica l’automatica ratifica di tutta questa realtà e ancor meno la sua promozione a orizzonte normativo, senza un’adeguata riflessione critica.

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