In via D’Amelio non solo mafia. Agirono anche pezzi dello Stato
Millecinquecento pagine per le motivazioni di una sentenza. Una sentenza e una notizia che rischiano di passare in secondo piano nel panorama convulso della vita politica e sociale italiana. Sono state rese note le motivazioni della sentenza del processo per il depistaggio delle indagini per la strage di mafia di via D’Amelio. I tre poliziotti, come sappiamo, non hanno subito alcuna condanna: uno è stato assolto, per altri due è scattata la prescrizione.
Ma questo processo non è stato inutile. Le indagini avviate troppo tempo dopo la strage non hanno consentito di individuare con certezza chi depistò e chi intervenne dopo la strage di mafia in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino e 5 agenti della scorta, a causa dell’esplosione di un ordigno, celato all’interno di una Fiat 126, parcheggiata davanti alla palazzina dove viveva l’anziana madre del magistrato.
I giudici non hanno dubbi: non fu Cosa Nostra a fare sparire, dopo la strage, l’agenda rossa di Borsellino che dopo la strage non venne più trovata. Borsellino la portava sempre con sé, custodita all’interno della sua borsa. La borsa venne ritrovata con il contenuto quasi intatto, ma l’agenda rossa non c’era.
Nelle motivazioni della sentenza, riportate da Adnkronos, si legge: «A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa Nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a una attività materiale di Cosa Nostra». I magistrati non hanno dubbi: «Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze. In primo luogo, l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda. Gli elementi in capo non consentono l’esatta individuazione della persona (…) ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre». Inoltre, «un intervento così invasivo, tempestivo e purtroppo efficace nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire – non oggi ma nel 1992 – il movente dell’eccidio di via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa Nostra di intervenire per “alterare” il quadro delle investigazioni evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di via d’Amelio».
Chi aveva interesse a portar via l’agenda rossa non era Cosa Nostra, ma chi voleva impedire che dagli appunti del magistrato si evincessero i nomi di mandanti estranei a Cosa Nostra. E ad agire per ottenere tutto questo non potevano che essere appartenenti agli organismi dello Stato. Ad aver agito sono persone riconducibili ai ruoli istituzionali, che hanno potuto agire indisturbati e che soprattutto sapevano dove mettere le mani, sapevano cosa era necessario prelevare e portare via per sempre.
I giudici parlano di un’azione e di un intervento «invasivo, tempestivo ed efficace».
I magistrati parlano anche del ruolo del servizio segreti. Nelle indagini ci fu un intervento del Sisde (che il procuratore Giovanni Tinebra persino sollecitò). Questo è anomalo. E se è accaduto, questo non può essere frutto di iniziative personali. Si può ipotizzare il coinvolgimento e l’avallo di vertici istituzionali dello Stato: si ipotizzano i vertici della Polizia e dei servizi segreti, forse anche di membri del Governo.
Qualche anno fa vennero individuati i tre poliziotti, a carico dei quali si è celebrato questo processo. Come abbiamo detto non c’è stata nessuna condanna, ma dopo 31 anni diventa veramente difficile riuscire a trovare chi ha agito veramente e a dare certezze che possano portare ad un giudizio di condanna, nei confronti dei responsabili. Questi resteranno, probabilmente, per sempre ignoti.
Ciò che invece conta è la ricostruzione di una verità storica incontrovertibile: pezzi dello Stato agirono in via D’Amelio. Pezzi dello Stato agirono per giungere a quella strage, stranamente troppo vicina (57 giorni dopo) a quella costata la vita a Giovanni Falcone.
Nelle motivazioni della sentenza le parole sono pietre. I giudici di Caltanissetta parlano di «plurimi elementi che inducono a ritenere prospettabile un ruolo, tanto nella fase ideativa, quando nella esecutiva, svolto da soggetti estranei a Cosa Nostra nella strage, vero e proprio punto di svolta nella realizzazione della strategia stragista dei primi anni Novanta».
Le testimonianze furono molteplici e in contraddizione. Alcune versioni dei fatti sono mutate nel tempo, come quella del giudice Giuseppe Ayala (anche per il comprensibile carico emotivo, secondo i giudici) e questo ha portato a non poter accertare la verità storica.
Non fu dunque solo Cosa Nostra a ideare la strage. Agirono elementi esterni e vi furono rappresentanti delle istituzioni che agirono prima e dopo la strage.
Borsellino aveva trovato delle notizie importanti. Le aveva appuntate sulla sua agenda. Non ne aveva parlato con nessuno. Si sentiva tradito anche dalle istituzioni. Ma sapeva di avere poco tempo e stava correndo per giungere ad un risultato prima che la sentenza di morte venisse eseguita anche contro di lui.
Non riuscì. Venne ucciso il 19 luglio 1992. La sua agenda rossa venne fatta sparire e, con essa, anche i suoi preziosissimi contenuti. E a farla sparire non furono i boss, ma «altri».
La sentenza di Caltanissetta consegna alla storia questa certezza.
Per la Sicilia che ancora lotta contro la mafia, che troppo spesso si annida tra gli uomini dello Stato, nella politica e nelle istituzioni, un punto da cui partire.
Incontrovertibile. E che stranamente – o forse no – sta passando troppo sotto silenzio.
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