Via dalla banalità che uccide

Serve una vigilanza di ferro, un allarme costante dell'anima.
Gente

Segretamente viviamo, e non ne siamo quasi mai coscienti, nell’attesa di un amore, di una bellezza. Infatti quando “per caso” incontriamo un amore, una bellezza, si vede di che pasta siamo o a cosa siamo ridotti: se non usciamo dal dormiveglia o banalizziamo, ahimè, è da piangere; se il cuore soprassalta, se ci si apre dentro uno spazio, un cielo, allora non siamo morti.

A me capita, non solo, ma prevalentemente, con l’arte la letteratura la poesia la musica, e con la natura. Facendosi anziani si diventa bizzosi chiusi e nevrotici, o, come spero stia capitando a me, indulgenti con le persone ma molto esigenti con l’amore e la bellezza: sono disposto a incantarmi e a farmi sparire il mondo intorno per una foglia d’autunno (ce ne sono di più belle della Cappella Sistina), pur effimera – come me –, e a farmi rapire da un inatteso particolare del Van Gogh già visto, o da un passaggio di un quartetto beethoveniano che ti strappa l’anima e la fa a striscioline capaci di formare una sfera che riflette il sole creato e increato.

L’ho anche sperimentato con una prova, direi, matematica e indiscutibile, davanti a un verso di Hölderlin, e voglio raccontarlo: nella poesia Der Hyster, un esercito, non dotato di imbarcazioni, deve attraversare il grande fiume Danubio per conquistare una città posta sull’altra riva.

«Non si può senza ali – dice il poeta – afferrare ciò che è più prossimo». Ora io non so se qui il grande lirico tedesco si sia consapevolmente o inconsapevolmente superato: sospetto fortemente la verità della prima ipotesi, ma non ne ho la prova provata; invece ce l’ho, eccome, se affermo che sempre, come in questo caso, la grande grandissima poesia (o musica, pittura ecc.) trascende sé stessa, ovvero supera e trasfigura le proprie intenzioni coscienti: quel verso dice molto chiaramente e semplicemente, nel suo senso letterale, che non si può conquistare una città, così vicina, senza attraversare il grande fiume con barche.

 

Ma c’è una traccia decisiva per affermare con assoluta certezza che il verso dice infinitamente di più: infatti non si raggiunge senza ali «ciò che è più prossimo». Nella sua affermazione universale, distinta da quella particolare (esercito, guerra, fiume da guadare, conquista), il poeta, o la poesia, dice che tutto ciò che ci è più vicino non possiamo afferrarlo se non volando, volando alto. Ovvero, che il nostro rapporto con noi stessi, gli altri, le cose, non è abitudine più o meno banale ma invenzione e scoperta “impossibile” (“ali”) e necessaria.

È un bel colpo contro le mille banalità quotidiane, e soprattutto le loro colpevoli fonti e cause: noi stessi, le nostre disperate ignoranti abitudini, lo spegnimento della sete di conoscere, e, molto più, l’orrenda alluvione massmediatica che tutto rende triviale, mediocre, ovvio nel migliore dei casi, insensato nel peggiore. Non per niente diceva ancora il grande Hölderlin: «Noi siamo un segno senza significato». Due secoli fa! Cosa direbbe oggi?

Ma per salvarsi bisogna farsi ogni giorno più indulgenti-esigenti: da giovane trovavo, come ora, conforto per l’orecchio e l’anima nella musica classica, ma ora non in tutta, direi nel trenta per cento di essa, ad essere generosi, il resto è chiacchiera. Ci sono musicisti, e non voglio fare nomi, anche tra quelli che vanno per la maggiore, che assomigliano a loro predecessori ben più grandi, o anche grandi che rifanno il verso a sé stessi, come se fossero passati attraverso Disneyland o Canzonissima.

Delle migliaia di libri che ho letto – doverosamente, perché era necessario o opportuno – ne restano vivi alcune decine, poco più di cento, perché gli altri si sono immobilizzati in pose da moine o danza macabra o carnevalesca e non possono sperare di uscire più dalla loro goffaggine, dalla loro consumata e compiuta inadeguatezza.

 

La banalità uccide, ma sul serio: ben più del cancro e dell’infarto, perché uccide anche persone sane e apparentemente vive. La banalità (parole-chiacchiera, immagini-chiacchiera, musica-chiacchiera, ecc.) soffoca più di una busta di plastica stretta intorno alla testa, o come una stufa difettosa, perché lo fa invisibilmente, insensibilmente, inavvertitamente. Ci vuole una vigilanza di ferro, un allarme costante dell’anima, per non lasciarsi narcotizzare e uccidere dal tran-tran, dal ron-ron della falsa libertà di massa, del “così fan tutti”: che producono solo allineamento in basso.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons