Verso un nuovo ordine mondiale?
La caduta (o meglio, l’abbattimento) del Muro di Berlino chiuse un intervallo temporale con una precisa identità storica, delimitato da due date realmente epocali: il 1917 – Rivoluzione d’Ottobre – e il 1989 – crollo, quasi in senso letterale, del socialismo reale. Quest’ultimo evento, impensabile fino alla vigilia del suo prodursi (e in effetti impensato e quindi imprevisto, persino inspiegabile dal punto di vista della teoria politica internazionale ispirata al neo-realismo) portò con sé alcune conseguenze di segno ambivalente: l’improvvisa (quanto effimera) “scomparsa del nemico”, la percezione della “vittoria” della Guerra fredda da parte dell’Occidente, la ricerca di nuove ragioni e nuove forme d’Europa e di un introvabile “nuovo ordine internazionale”.
Non apprezzeremo mai abbastanza la fine di un confronto bipolare che rappresentò una svolta nelle relazioni internazionali. E che si intreccia con la complessa e per molti versi contraddittoria storia del XX secolo, che ha visto al tempo stesso l’apice della guerra, divenuta guerra di sterminio, e il faticoso dipanarsi della trama politica che ha condotto all’invenzione o reinvenzione della pace (basti pensare alla Società delle Nazioni, alle Nazioni Unite, alla stessa Unione Europea).
Se da una parte la cifra di 60 milioni di morti (due terzi dei quali civili) nel corso della Seconda guerra mondiale dà la dimensione del carattere devastante assunto dalle guerre contemporanee, dall’altra mai come nel XX secolo sono risuonate appropriate le parole scritte da sir Henry Maine, un giurista inglese dell’Ottocento: «War appears to be as old as mankind, but peace is a modern invention». La pace come modo d’essere strutturale del sistema internazionale è un’invenzione recente, e si colloca proprio nel XX secolo, per altri versi sanguinoso e fratricida.
Dopo il 1989 emersero nuove tematiche nel dibattito internazionalistico e assunsero nuova densità semantica ipotesi antiche e più recenti, come i concetti di transnazionalità, di tendenziale unione tra politica interna e politica internazionale, di microcosmo/macrocosmo, di “federalismo cosmopolita”.
La percezione dominante, per buona parte degli anni ’90, fu che la fine della Guerra fredda segnasse l’affermazione di una fase storica pacifica, dominata dall’economia occidentale e dagli indiscussi benefici della globalizzazione. Alle illusioni di allora seguì un brusco risveglio. La guerra nei Balcani (1991-1995) prima e poi il già ricordato trauma dell’11 settembre 2001 segnarono una netta inversione di tendenza nelle percezioni occidentale ed europea, dimostrando che la fine del bipolarismo non aveva in realtà prodotto un’epoca di stabilità, ma una transizione internazionale non facile e gravida di rischi. Una transizione fatta non solo di crescita economica e di diffusione della democrazia, ma anche di instabilità ai confini dell’Europa, di esplosione del terrorismo di matrice pseudo-religiosa, di nuove minacce transnazionali.
Dal punto di vista geopolitico infatti, l’asse centrale dei problemi della sicurezza – europea e internazionale – si era spostato da Est verso Sud (Mediterraneo, Medio Oriente, Golfo Persico).
Prese dunque piede un discorso politico fondato sul tema della crisi, e articolato attorno ai temi dello “scontro delle civiltà”, del terrore globale, dell’integrismo violento, dell’intolleranza identitaria, dell’insicurezza mondiale e della precarietà individuale, divenute la cifra sociale, economica e politica della crisi finanziaria esplosa tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009.
Lo sgretolamento delle certezze fu accelerato da eventi critici di natura economica, che coinvolsero l’intero sistema produttivo di matrice occidentale, e che colpirono quasi tutte le aree del pianeta.
Se la crisi finanziaria che ha colpito soprattutto l’Occidente a partire dal 2008 ha mai avuto un merito – ammesso che ve ne sia uno – è che, dopo vent’anni, era venuto meno il «trionfalismo della Guerra fredda». Che suonava più o meno così: il capitalismo e la democrazia liberale hanno vinto, il comunismo e il socialismo reale hanno perso, c’è dunque un solo modello sociale, economico e politico, ed è quello liberale e liberista. Tuttavia, dopo due decenni dalla caduta del Muro di Berlino, non si era forse incrinato – quanto meno in termini di credibilità e di tenuta rispetto agli shocks asimmetrici – anche il Muro di Wall Street?
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In realtà, si è passati da un “impero duale” a un policentrismo basato sulla diffusione di potere e di influenza. Gli Stati Uniti, pur continuando a conservare un orizzonte operativo realmente globale, non sono l’unica potenza mondiale (e il XXI secolo non sarà il “secolo americano”) in un’epoca di nuovi attori emergenti, come Cina, India, Brasile, Sudafrica (in futuro, anche Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia).
A questa prospettiva di coabitazione e di traslazione del potere su scala globale non corrisponde certo la capacità degli attori di sostenere un ruolo che possa sostituire la legittimità d’azione delle istituzioni internazionali, la cui credibilità suscita oggi, peraltro, più interrogativi che certezze.
Guardando all’attuale “disordine mondiale”, alcuni commentatori sono persino arrivati a rimpiangere la presunta stabilità prodotta dalla Guerra fredda. È un’opinione che non si può condividere, per diverse ragioni. Anzitutto perché si dimentica che quella terminata nel 1989, ancorché fredda, è pur sempre stata una guerra. In quasi tutti gli angoli del mondo, e in quasi tutte le attività umane, possiamo riscontrare ancora oggi l’impatto negativo di un confronto durato ben 45 anni. In secondo luogo, perché se la caduta del Muro portò all’esplosione di conflitti a lungo sopiti (basti pensare alla ex Jugoslavia), generandone di nuovi (Iraq, Afghanistan, Libia), questo evento epocale liberò anche forze prigioniere della logica bipolare, consentendo, ad esempio, la riunificazione dei due polmoni dell’Europa (oltre che della Germania). L’attuale instabilità non è un effetto diretto della caduta del Muro, ma dell’incapacità (o di mancanza di volontà politica) della comunità internazionale (e dei Paesi che ne sono leader indiscussi) di creare strutture e funzioni per una nuova governance mondiale, realmente pluralista e multilateralista.
Da Pasquale Ferrara, La politica inframondiale, le relazioni internazioni nell’era post-globale (Città Nuova, 2014)