Verso quale futuro?
Trasformarci in esseri artificiali e oltre-umani, privi di corpo biologico. O no? Una riflessione (e provocazione) a tutto campo su darwinismo, evoluzione, senso del vivere.
Nella disputa tra “neocatastrofisti” e “ultraottimisti” razionalisti sul futuro della nostra specie nel pianeta Terra, oggi ci troveremmo proiettati, finalmente e senza scampo per alcuni, in un margine estremo, in «una soglia finora nemmeno concepibile» (A. Schiavone). Oltre questo limite cruciale ci attenderebbe «un passaggio senza precedenti».
La nostra civiltà, la modernità, avrebbe ricevuto un’improvvisa e accecante rivelazione dalla “profondità del tempo” storico.
L’attuale potenza del progresso secolarizzato, legato alla forza soverchiante della tecnoscienza, «fa balenare una forma nuova e rivelatrice della connessione tra passato e avvenire, quale mai prima d’ora si sarebbe potuta riflettere nella mente umana». La visione di un cosmo privo di senso globale, ma con la presenza fortunosa e inspiegabile dell’intelligenza umana, ci renderebbe ora capaci e padroni di tutto, con l’uso spregiudicato dell’ingegneria genetica.
Questa verità assoluta avrebbe trovato il suo potere unitario e superiore nell’immaginario culturale del darwinismo radicale, prescindendo dal cristianesimo e da ogni altra confessione religiosa. Dopo Darwin l’uomo occidentale avrebbe mutato radicalmente il suo sguardo generale sul mondo, sulla natura e sulla vita. L’universo, la natura e l’esistenza si rivelerebbero crudeli e privi di scopo divino, perché dominati da un’imperfezione e da un male ingiustificabili da parte della coscienza illuminata umana ed etica.
La razionalizzazione naturalistica del mondo ha generato così «una miscela esplosiva» (P. Costa) nella cultura e nel comportamento, che ha favorito il darwinismo nell’indirizzo ateo. La mentalità, l’educazione e lo stile di vita di un numero crescente di persone, pertanto, con un’ingenuità quasi infantile, reclamano la soddisfazione immediata di ogni desiderio (il «tutto e subito qui e ora») come unico e ultimo “senso del vivere”, sostenendo che l’infelicità e il dolore sarebbero prove contro Dio, mentre il dominio del cieco caso favorirebbe il darwinismo materialistico.
Di fronte a questa visione della vita, le reazioni e le scorciatoie fondamentaliste contro la modernità e la scienza, in generale peggiorano soltanto la situazione. Bisogna invece accettare la sfida e il confronto, proponendo argomentazioni efficaci e una migliore testimonianza di vita. Di fatto è possibile, partendo da un approccio scientifico, conciliare una visione aperta della natura e dell’evoluzione con la fede religiosa nella creazione, vedendo l’evoluzione stessa come una creazione “continua” (da non confondere con il creazionismo, ossia l’interpretazione letterale del racconto biblico delle origini).
La teoria darwiniana dell’evoluzione delle specie, infatti, rimane geniale e dal potere esplicativo fecondo, sempre per approssimazione, se ristretta all’ambito della scienza biologica. Ma la stessa teoria, costruita sul «meccanismo darwiniano di variazione (genetica), eredità e selezione, non può essere adatta» ad altri campi scientifici, soprattutto a quello della cosmologia (P. Davies), ossia all’origine dell’intero universo.
Se dunque, contro lo stesso metodo scientifico, il darwinismo venisse allargato alla comprensione generale del significato del mondo e della vita come unica verità, da un lato susciterebbe grande confusione nelle idee, dall’altro risulterebbe non più una teoria scientifica, bensì una generalizzazione filosofica e ideologica indimostrabile.
La propensione umana a percepire il divenire come trasformazione (evoluzione) di tutto ciò che esiste appare un fatto antico, divenuto oggi l’oggetto privilegiato dell’indagine scientifica. Ma ciò che la scienza non può dimostrare sono le cause profonde dei molteplici meccanismi dell’evoluzione (cosmologica e biologica), ossia l’origine delle costanti numeriche e delle leggi alla base dei complessi processi evolutivi. Perché se uno scienziato, brillante quanto si voglia come Darwin, attribuisce quelle leggi a combinazioni senza senso e senza scopo, al caso assoluto e alla selezione naturale insensata, ma dal potere decisionale crudele (lotta per la vita), si pone fuori della scienza, e si colloca nel campo delle generalizzazioni filosofiche e ideologiche soggettive.
E, infatti, in questa ottica ambigua si giunge inevitabilmente al paradosso più clamoroso per il darwinismo, al colpo a sorpresa: la comparsa della libertà umana e la coscienza di scegliere il bene e il male si manifesterebbero come l’anomalia più stravagante e grottesca dell’intero universo.
Certo, agli occhi della sola scienza empirica riduzionistica la coscienza della libertà rimane un vero rompicapo, un’autentica e indecifrabile stranezza. Inspiegabile nella causa profonda. E, quindi, da attribuire al puro caso, il rifugio più sicuro della nostra ignoranza. Ecco perché bisogna reagire, comprendendo qual è la vera posta in gioco di fronte alle sfide e agli interrogativi che ci vengono dalla vita e dalle interpretazioni sul suo significato.
Il percorso della nostra civiltà ormai si mostra vertiginoso. L’accelerazione delle innovazioni tecnologiche è senza eguali. Esso ha causato per sempre il sovvertimento della nostra vita quotidiana, penetrando nell’intimo e nel vissuto di tutti. La frattura con il passato si profila netta. L’incertezza del nostro futuro di individui ormai secolarizzati diventa il vero male che oscura la vita e la appiattisce sul presente. Sembra che niente e nessuno sia più in grado di tenere il passo ultrarapido delle imprese scientifiche. In breve, diventa molto rischioso per tutti sostenere che d’ora in poi non sarà più la natura imperfetta e anonima a sospingere l’evoluzione.
Ma noi, e solo noi diventeremo la guida intelligente dell’evoluzione della vita sulla Terra, nella convinzione che ogni riferimento a un senso dell’esistere (Dio) sia inutile, anzi fuorviante e nocivo. In questo uso non più scientifico del darwinismo e della teoria dell’evoluzione, tutto si scompagina. La transizione culturale appare dirompente. Il passato sarà presentato solo come preistoria oscura. Mentre si esibisce come unica via di salvezza e come un compito supremo del naturalismo integrale e autosufficiente quello di andare oltre-la-nostra-specie.
Grazie all’ingegneria genetica, presto la nostra natura umana non dovrà più essere vincolata alla prigione e al limite intollerabile del corpo biologico con le sue schiavitù (catena alimentare, sessualità, deformità, malattie, vecchiaia, corruzione e morte). Sarebbe a disposizione un salto di qualità incomparabile. Possiamo solo migliorare la specie, realizzando un tipo oltre-umano, un essere «bio-elettro-antropico», con un supporto, per la mente, non più naturale e biologico, bensì artificiale come, per esempio, un supercomputer al silicio, di materiale incorruttibile e quasi immortale.
Le implicazioni culturali risulteranno inimmaginabili. La nostra generazione e quella dei nostri figli saranno le ultime a fare i conti con la morte. Si potrà entrare nella vita come e se lo si vorrà, e uscirne come e quando decideremo noi (eutanasia). Le frontiere dell’etica saranno spostate secondo le richieste della potenza raggiunta dalla tecnoscienza.
Il nostro non sarà «il secolo finale» (M. Rees). La lotta sarà vinta. È scritto nella logica delle cose (anche se il tutto sarebbe illogico, perché prodotto da una lotteria cosmica priva di senso!). La nostra specie, trasformata dalla cibernetica molecolare (computer a Dna) e dalle biotecnologie, dilaterà la conoscenza fino a farla coincidere con i meccanismi ciechi dell’universo. L’intelligenza umana diventerà così onnisciente e onnipotente. Questa è la sfida di un mondo completamente secolarizzato, nella «versione cruda del darwinismo» filosofico, non scientifico, padrone del bene e del male, capace di rifare la vita e di liberarsi dalla schiavitù del corpo, dal male e dalla morte.
Ecco perché chi sceglie di credere, soprattutto oggi, è chiamato a mostrare nella vita concreta che la fede religiosa non blocca la conoscenza scientifica e il corso dell’evoluzione, ma le dà senso e orientamento per il bene effettivo di tutte le persone, senza sacrificarle al delirio di onnipotenza dell’ideologia. Questa scelta, compiuta nell’onestà e testimoniata con una vita che ama la giustizia, non costituisce un segno di paura e di debolezza, bensì diventa il coraggio di dire sì alla vita fino in fondo, amandola e rispettandola in sé e negli altri in tutte le forme e in tutte le fasi, dal suo inizio alla sua transitoria fine terrena.