Verso Monet
Ho di fronte una delle rassegne più belle degli ultimi anni. Così bella da far provare qualcosa di simile alla famosa sindrome di Stendhal. Sì, perché quando si contempla così a lungo una serie ininterrotta di capolavori dal Seicento a Monet, tutti incentrati sulla natura, può accadere anche questo. Intendiamoci, non è il soggetto a farci sorprendere ma il modo, o meglio il sentimento, con cui la natura è guardata e resa. Trasfigurata, diremmo, da una fantasia che è amore.
Nasce da lontano l’amore per la natura nell’arte. Alcune decorazioni romane, a Roma come a Pompei, lo attestano. Risorge prepotente nel Rinascimento, in particolare a Venezia: la Tempesta del Giorgione ne è una tappa fondamentale. È con questa piccola tela che nasce l’attenzione moderna al fenomeno naturale, ai suoi eventi, al suo fluire ininterrotto di luce e di calore.
Nel Seicento, il paesaggio diventa non solo esplosione o commento sentimentale, ma protagonista. I paesaggi di Carracci e Domenichino si inventano allegorie sacre o profane come soggetto, ma in realtà cantano un amore vibrante per la natura, fatto di luci tremolanti, di colori pieni. Un mondo rivissuto da Claude Lorrain con una nostalgia arcadica, una trasfigurazione nella natura di un sentimento già panico, sussultante del mondo intorno all’uomo, una immersione nella bellezza tout court quale il pittore vede intorno a sé. Sono boschi, fiumi, laghi e monti dove Nicholas Poussin o Salvator Rosa immergono l’anima: il primo in ondate calme di colore, il secondo in paesaggi movimentati, ventosi, passionali, si direbbe.
In casa fiamminga, dove dal Quattrocento la natura è co-protagonista dei dipinti, Rembrandt – ma non lui solo, certo – crea delle vedute di Haarlem colte da un orizzonte lontano e amplissimo, come se il pittore si trovasse sulla cima della più alta vetta possibile. Pittore dell’infinito come pochi, e dell’interiorità altrettanto infinita, Rembrandt disegna case, torri, mura e canali, erbe e monti sotto un cielo vasto, immerso nella luce.
Il Settecento è l’età dei “vedutisti”. I veneziani, Canaletto, Bellotto, Guardi, prima di tutti. Così simili e così diversi. Canaletto è scientifico, preciso, cristallino: la basilica di san Marco è colta da differenti luoghi di osservazione e riprodotta da un colore terso, “matematico”. Canaletto è un architetto del paesaggio. Bellotto è caldo: inventa "Capricci", ossia vedute fantastiche e già romantiche di rovine antiche e porti, golfi e piazze, come quella Navona a Roma, sempre serene: una fantasia estrosa, ma controllata. Guardi, no: vibra in punta di pennello di una inquietudine veloce, le sue nuvole sono in corsa col vento, i colori trepidi, c’è in lui qualcosa di sfuggente, un senso di malinconia. Ma che bellezza, che respiro ampio nelle piccole tele, quanta anima…
La stagione romantica che si prende tanta parte dell’Ottocento è una autentica navigazione a vista sulle correnti del sentimento, da quello estremo a quello più intimo, ove il pennello dice il fluttuare emotivo, gli stili sono divergenti ma in fondo anche convergenti nell’amore per un colore denso, forte, allusivo, che crei atmosfere. Si capiscono così Constable, l’ombroso, e Turner, l’immaginifico amante dei turbini e delle tempeste; Corot, che si distende in case e grotte con calore come Courbet e Friedrich autore di una delle tele più sconvolgenti della mostra: "Il mare al chiaro di luna", anno 1835. Qui si sente la medesima aria del leopardiano “Infinito”, una estasi beatificante e tremenda – nel suo significato primigenio di “tremore” – dinnanzi al cielo immenso che copre scuro le creste del mare. Ampio come la "Sinfonia Pastorale" di un Beethoven o puro come “Il sogno di una notte di mezz’estate” di un Mendelsshon.
Da qui si arriva alla stagione dell’Impressionismo. Ovvero come cercare il divino nella natura, oltre l’uomo, che quasi non compare. L’infinito è compresso in Cézanne, i suoi sentieri, i boschi, gli anfratti, i monti come la montagna Saint-Victoire, un Sinai dell’arte moderna; espanso in Pissarro, che ama così tanto le primavere e gli autunni ventosi e velati; palpitante in Renoir di vita carnosa nei fiori; drammatico in Van Gogh; tenero in Manet.
Fino ad arrivare al vero panteismo cosmico di Monet, per il quale tutto nella natura è una goccia di Dio: salici, acqua, fiori, boschi, campi di papaveri, vedute di paesini, alberi in fiore. Monet lavora con uno struggimento del colore – tocchi sottili fitti gravidi di luce –, una tenerezza dell’anima, un sorriso e un pianto insieme che attirano, commuovono e distruggono per la troppa bellezza. Fino a quel salice piangente del 1918 dove tutto è filamento chiaroscurato del cuore che ride piange pensa e scopre nello stesso tempo. E sta pure in attesa di altre bellezze.
La natura come luogo di felicità. Ecco il fascino di 114 opere che a Verona Marco Goldin, incantatore nella scrittura e nella sensibilità, ha esposto al Palazzo della Gran Guardia fino al 9/2. Assolutamente da non perdere. (catalogo Linea d’ombra).