Verso il paradiso del Pacifico

Sesto episodio della vita di Padre Damiano de Veuster.

A Lovanio, i saluti di tutta la comunità, e le ultime ore, indimenticabili, trascorse col fratello, prima di mettersi in viaggio alla volta di Parigi, per gli esercizi spirituali.

Dopo i tre giorni di ritiro posò per la foto-ricordo da inviare ai genitori: il crocifisso nella mano sinistra, la destra sollevata a indicarlo, nello stesso atteggiamento un po’ lezioso di quel san Francesco Saverio dell’immagine edificante, appesa nella tribuna della cappella al noviziato di Issy.

Ma all’entusiasmo dei giovani, in certe occasioni della vita, quando, nel loro candore, si sentono già proiettati in paradiso, si può perdonare questo ed altro.

 

Il 29 ottobre tutta la comitiva dei partenti, già convenuti a Parigi, si trovò alla stazione dell’Est. Con Damiano salirono sul treno per Brema il padre Cristiano Willemsen, i fratelli Liévin Van Heteren e Clemente Evrard, i cooperatori Aymard Pradeyrols ed Eutrope Blanc, e dieci suore, anche esse «Picpus».

Il giorno dopo, a mezzodì, raggiungevano il grande porto d’imbarco. Attraccato al molo, il veliero R. W. Wood, battente bandiera hawaiana, attendeva il favore del vento.

A bordo il comandante li accolse con una cordialità così simpatica, che subito li fece sentire tutti a proprio agio. Si chiamava Guerken, quel vecchio lupo di mare che guidava una ciurma di sedici uomini. Era tedesco e aveva con sé la moglie e un nipote. Da anni prometteva loro quel viaggio alle Hawai.

 

Protestante, ma di una grande apertura, il capitano provvide fin dal primo giorno che i missionari fossero alloggiati in un appartamento riservato, e le suorine in un altro, sicché queste e quelli potessero continuare, per tutta la traversata, la loro vita religiosa con le relative pratiche di pietà e di studio, regolate esattamente dall’orario consueto, come se si fossero trovati a terra, nei loro istituti di Francia o del Belgio. E volle che, a consumare i pasti, i missionari sedessero alla sua tavola, augurandosi che il mal di mare non falcidiasse troppo il gruppo di quei suoi carissimi ospiti. E consentì che ogni giorno, mare naturalmente permettendolo, il padre Cristiano celebrasse la messa nella sala da pranzo, dato che a bordo non c’era una cappella.

 

Il 2 novembre 1863 – una bava di buon vento lasciava un po’ sperare – il nostro veliero fu rimorchiato da un vapore fuori del porto di Brema. Ma erano passati sì e no dieci minuti dacché s’era mosso, quando, all’improvviso, fu investito da raffiche violentissime, che lo costrinsero a calare precipitosamente le ancore e a fermarsi in tempo, prima di essere trascinato al largo nei vortici di una burrasca impetuosa. La quale accennò a spegnersi solo la sera dell’8 novembre.

Poi, finalmente, all’alba del 9, la voce tonante di capitan Guerken riempì la nave.

«Vento forte e favorevole. Salpate le ancore!». Il trealberi si staccò dalla costa d’Europa a vele spiegate. Ma il vento lo spinse, gagliardo, nella direzione giusta soltanto fino in vista delle bianche scogliere di Dover. Da quel momento si dette a soffiare in senso contrario, per settimane intere, consentendo alla nave di avanzare a stento e a zig zag, fino alla fine   di novembre, appena di dieci miglia al giorno…

 

Fratel Damiano non ebbe il problema degli altri, in quel mese esasperante, sul modo migliore di esercitare la virtù della santa pazienza. Gli studi lo tenevano più che occupato, esigendo da lui parecchie ore al giorno d’applicazione sui testi di teologia. Nelle altre ore, quando non doveva assistere il padre Cristiano, costretto a letto per giorni interi dal mal di mare, offriva le sue braccia muscolose in aiuto degli uomini della ciurma.

«Lei mi piace molto di più quando lavora… di quando mi fa la predica», gli sorrideva benevolo il capitano Guerken.

È che il nostro Damiano, nel suo entusiasmo incontenibile, s’era forse messo in mente di collezionare la conquista d’una anima – e forse di due, e forse di tre – ancor prima di approdare alle isole della sua missione; sicché a tavola, con uno zelo a dir poco eccessivo, e comunque senza alcun risultato, trovava spesso il pretesto per ammannire al comandante, alla sua signora, nonché al loro nipote, delle lunghe omelie sull’unica vera Chiesa, cattolica, apostolica, romana… Ma il comandante non gliene voleva per questo.

«Son ardori di gioventù – lo scusava –, l’esperienza gli darà misura».

 

Alla fine di novembre il vento prese, se Dio volle, a soffiare in favore. Da quel momento la navigazione scivolò svelta per l’Atlantico verso l’equatore, rotta sud-ovest.

Clima sempre più buono, mare sempre più calmo. Ora lo si sarebbe detto davvero quel «viaggio di piacere» che la signora Guerken aveva sognato per anni. Anche padre Cristiano non soffriva più e la messa riusciva a dirla, ormai, ogni mattina.

Il nostro Damiano era all’empireo del suo entusiasmo: partecipò coi marinai alla cattura di uno squalo; assaggiò la carne dei porcellini di mare e la proclamò «deliziosa»; seguì col cannocchiale il passaggio di un branco di balene e paragonò i getti d’umidità condensata, ch’esse lanciavano dalle narici, alle fontane di Girolamo Van Aken, detto «Bosch»; il 31 dicembre osservò interessato che nessun corpo faceva ombra, né gli uomini, né gli alberi della nave, perché il sole era esattamente a perpendicolo sopra il veliero… Insomma era fuori di sé nell’ammirazione del creato, e ormai le sue meditazioni avevano un unico tema: l’infinita grandezza di Dio.

Dopo l’Epifania il tempo perse gradatamente di mitezza per farsi sempre più fresco e poi più freddo, e il mare si mise a tempesta.

 

Ed ecco Capo Horn. La comitiva dei «Picpus» recita sulla tolda l’ufficio dei defunti e dice il rosario per il vescovo Rouchouse, i suoi quattordici missionari e le dieci suore, periti alla fine del 1842 in queste acque, nel naufragio della Marie Joseph, sulla rotta che doveva portarli alle Hawai. Son acque difficili, queste dello stretto di Magellano. Acque perigliose. L’R. W. Wood le solca filando a tutta forza, per lasciarle al più presto alle spalle.

Ma una notte, quando già l’equipaggio e i passeggeri si ritengono fuori pericolo, una ondata gigantesca   solleva la nave letteralmente in aria e la scaraventa nella furia degli elementi. Il trealberi impazzisce: gira su se stesso vorticosamente, come una trottola; ora si tuffa di prua, ora affonda di poppa, e subito dopo s’infila di lato e vien spazzato dai marosi; a tratti è del tutto sommerso, poi riaffiora, e il vento lo riacciuffa, lo schiaffeggia, lo scuote, lo squassa; e così, per dieci giorni e per dieci notti, l’R. W. Wood è sballottato di qua e di là, a vele ammainate, giacché è impossibile   governarle senza che le raffiche le strappino, ed è impossibile lottare   contro quell’arruffìo assordante di   venti, di schiume, di scrosci… E si è già a duecento miglia fuori della buona rotta!

Ma alfine l’inferno si placa, e un vento di poppa consente al capitano Guerken di spiegare tutte le vele.

Dura due giorni, la buona sorte. Al terzo la nave incappa in un’altra tempesta e le vele devon esser di nuovo ammainate di fretta. Cavalloni alti come case si lanciano furiosi sulle murate, le investono da ogni lato, inclinano il veliero di babordo e lo spingono sotto, che quasi scompare, e poi lo rilanciano su, in vetta ad un flutto altissimo, per riafferrarlo e scompigliarlo ancora entro mulinelli vertiginosi.

 

Quando, dopo giorni e giorni, l’oceano Pacifico alfine si placa, sotto le fiancate dell’R. W. Wood sfilano i resti di parecchi velieri naufragati.

Capitan Guerken riaggiusta la rotta e spiega di nuovo tutte le vele al vento. La nave bordeggia l’isola Juan Fernandez – quella di Robinson Crosue –, segue il litorale di Panama, del Costarica e del Guatemala, e poi riaffronta il largo, rotta est-nord-est.

Il 19 marzo 1864 – centoquarantasei giorni dopo la partenza dal molo di Brema – l’R. W. Wood getta alfine le ancore nel porto di Honolulu, capitale delle Hawai e «paradiso del Pacifico».

È la festa di san Giuseppe; e di fronte a quel favoloso scenario di palme lussurreggianti, di magnolie profumate e di aranci dorati, fratel Damiano, al secolo Giuseppe De Veuster, torna per un attimo col pensiero a Tremeloo, il suo paesello natìo, dove lo stesso giorno ch’era venuto alla vita, egli era stato battezzato col nome di quel grande umile santo di Nazareth e affidato alla sua paterna protezione.

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