Verso il “chaco paraguayo”
Cerco con lo sguardo le piattaforme di partenza indicate nel biglietto: due fiammanti autobus a due piani mi attendono. Buon segno – mi dico -, m’aspetta un viaggio lungo ma almeno comodo, pare. Mi avvicino al primo pullman ma vedo che è diretto a un’altra città; mi dirigo al secondo: neppure quello va dove devo andare io. Ed ecco che, con sorpresa, noto che in mezzo ai due giganti è parcheggiato un veicolo che non ha due piani né nulla di fiammante; anzi, si nota da lontano che ha sulle spalle parecchi chilometri. Leggo il cartello sul vetro, con la segreta speranza che non indichi Filadelfia. Invece è proprio come temevo! Mi stupisce, salendovi, che i cartelli siano bilingue: in spagnolo e… tedesco: Rauchen verlangen verboten, proibito fumare e sputare. Il pullman si addentra dondolando per le strade del centro di Asunciòn, e mi domando come sarà il viaggio, di notte e con la pioggia. Ma l’acqua non ci accompagnerà ancora per molto, immagino: pare che laggiù non piova quasi mai. Calcolo, per come si mettono le cose, che non è prevista la cena a bordo, perciò decido di non farmi scappare la chipera che è appena salita offrendo i suoi prodotti. Attraversiamo il ponte sul Paraguay, lasciandoci dietro la parte verde e abitata del Paese per addentrarci nella zona desertica; m’invade una sensazione inesplicabile di insicurezza. La notte m’impedisce di vedere, attraverso il vuoto che sembra avvolgerci, anche solo una stella che mi orienti. Ogni tanto il pullman sosta nella più assoluta oscurità, e con mia sorpresa sale e scende gente venuta apparentemente dal nulla e che nel nulla svanisce. In un’occasione una tenue luce sospesa illumina fugacemente l’ombra di un uomo appena sceso. Lo seguo con lo sguardo, scrutando nel buio quasi con disperazione, ma anche lui sparisce … Cerco di dormire, senza successo, e quando mi tolgo la mascherina sorprendo un uomo dai forti tratti ayoreos (una delle comunità indigene presenti nella zona, alcuni sono ancora selvaggi) che mi fissa in silenzio, con un sorriso inquietante, e chissà da quanto. I suoi occhi brillano come tizzoni tra le ombre. Pare che desideri domandarmi qualcosa. Mormora qualche parola che non riesco a comprendere. Dico sottovoce: Scusi, non ho capito…. Per nulla contrariato, mi risponde con un ah! aspirato; poi apre la porta che ci separa dall’autista e ripete a lui la domanda, questa volta in uno spagnolo poco comprensibile. Dopo poco il bus si ferma, l’uomo scende e anche lui svanisce nella notte. Luci, finalmente! Vedo dal finestrino un bel monumento con cinque colonne stilizzate (le cinque culture che convivono nel posto) unite da un anello e una croce al centro. Saprò più tardi che è stato eretto di recente, in occasione del 75º anniversario della fondazione della città avvenuta in spirito di convivenza e sviluppo. In pochi minuti arriviamo alla modesta stazione del capolinea, circolando per ordinati e ben illuminati viali di terra battuta. Vedo subito Damián, che mi aspetta col suo abituale sorriso. È tardi, conviene andare subito a riposare: domani ci aspetta una giornata intensa. Alle sette sto già facendo colazione, mentre metto insieme i miei appunti. Tutto impressiona di questa città-oasi sorta in mezzo al deserto grazie alla tenacia e alla laboriosità di una compatta comunità mennonita, originaria della Russia. Case grandi, graziose, confortevoli, preparate per il gran caldo che raggiunge e supera con frequenza i 40 gradi; tetti di zinco per raccogliere al meglio la scarsa acqua piovana; cartelli rigorosamente in spagnolo e tedesco (nonostante si parli il plat-deutch, il loro antico dialetto); nomi germanici delle vie si mescolano con Via Asunciòn o Boqueròn. Nelle strade circolano forti e moderni pick-up dei circa quattromila mennoniti, le moto dei paraguaiani e dei brasiliani (circa tremila in tutto), e le bici e i cavalli di Sant’Antonio degli indigeni. Sono almeno quattro le comunità aborigene presenti con circa cinquemila persone: gli enleht (o lenguas, come sono chiamati generalmente gli antichi abitanti della regione); i guaraní e i nivaklè, provenienti dalle zone adiacenti al Pilcomayo; e gli ayoreos, abitanti della selva, che hanno lasciato il loro habitat tradizionale da appena vent’anni. Filadelfia è la seconda colonia mennonita per fondazione (1930), sorta due anni dopo Loma Plata, nata da coloni provenienti dal Canada. Mi incuriosisce un titolo di un giornale: In pericolo di estinzione gli ultimi cinque gruppi selvaggi ayoreos del pianeta. Le topadoras, le macchine che distruggono la foresta, proprietà delle multinazionali, avanzano in effetti senza scrupoli, conquistando migliaia di ettari per i pascoli dell’allevamento estensivo e per aprire strade. L’Undp, programma delle Nazioni unite per lo sviluppo, si propone si salvare quasi 100 mila ettari dichiarati patrimo- nio naturale e culturale ayoreo-totobiegosode, gli uomini che abitano le terre dei pecarí. Chi vincerà il braccio di ferro? Raramente vincono i deboli, ma preferisco sperare che questa possa essere l’eccezione alla regola. Fa impressione pure la messa cattolica, in quattro lingue (spagnolo e tre idiomi aborigeni), all’aperto, sotto la tenue pioggia. Quasi cinquecento persone, indigeni la maggioranza, riunite dalla fede, senza discriminazioni. In questo singolare contesto così fuori dal mondo, i miei amici, due laureati con quattro figli, oltre a dare un apporto con il loro lavoro allo sviluppo di questa originale colonia ora eretta a comune, sono diventati per molti una vera calamita. Perché? Che cos’hanno di speciale? Nulla, in apparenza… si vogliono bene, amano i loro bambini, sono buoni professionisti… Ma c’è qualcosa in più: un ideale che li ha attratti quello dell’unità. Sono diventati a loro volta costruttori di unità, tessendo costantemente rapporti tra persone di classi, culture e confessioni diverse. Per loro tutti sono candidati all’unità, nel rispetto delle diversità. Così sta nascendo in mezzo al deserto del chaco paraguaiano una piccola ma crescente comunità attorno alla Parola vissuta: un promettente seme di fraternità, come tante altre nel mondo, che crescerà e sarà albero. Mi presentano i loro nuovi amici: ci rechiamo nelle loro case o ci diamo appuntamento in piazza a prendere il tererè, una bevanda tipica preparata con l’erba del mate, molto rinfrescante, mentre i bambini giocano all’aperto. Mi fanno conoscere la modesta ma armoniosa cappella costruita dallo sforzo di tutti: impressiona vedere cosa sia capace di fare un gruppo di persone senza tanti mezzi ma convinte e unite dallo stesso ideale. Un incontro mi da una gioia particolare. Avviene nella casa di amici mennoniti, fedeli alla loro identità culturale e religiosa. ma aperti alla ricchezza dell’altro. Lo avverto come un segno di speranza, sempre in vista della costruzione, non senza difficoltà, di società multiculturali, unite dalla Parola vissuta nel rispetto delle identità di ognuno. Di ritorno, fuori dal pullman ci circonda di nuovo l’oscurità. Questa volta il cielo è sereno e si possono ammirare le stelle.