Verga: il fotografo della realtà

Il più grande romanziere della nostra letteratura dopo Manzoni
Giovanni Verga (1840-1922) (Wikipedia)

Quest’anno cade il primo centenario della scomparsa di Giovanni Verga (1840-1922), uno dei maestri della nostra letteratura, un prosatore “assoluto”, avendo scritto solo romanzi e novelle. In realtà scrisse pure per il teatro, e con un certo successo, come quello che arrise alla versione drammaturgica di novelle straordinarie come Cavalleria rusticana e La lupa. Ma pur sempre di racconti si tratta, usciti con tanti altri testi narrativi dalla penna del più grande romanziere della nostra letteratura dopo Manzoni.

A ricordare Verga, nato nel 1840 a Vizzini, nel Catanese, deve essere soprattutto la Sicilia, perché i legami dello scrittore e della sua opera con quella regione sono fortissimi, tanto che qualcuno lo ha chiamato “scrittore regionale”. In Sicilia è ambientata la maggior parte dei suoi lavori, la sua regione gli scorre nel sangue, e sulla realtà regionale Verga ha costruito la propria visione della società, del mondo, della vita.

Una concezione pessimista e paternalista, da nobile di contado qual era, che non vuole un’emancipazione eccessiva delle classi lavoratrici (lui ha presente quasi solo il mondo contadino), ma che prova pietà e solidarietà per la miseria, i problemi e le traversie affrontate dai poveri e dai reietti. Il legame di Verga con la Sicilia emerge anche dalla sua passione per la fotografia, quando in vecchiaia si dilettò a puntare il suo obiettivo sulle classi più sfavorite, specie in campagna, e sui loro ambienti miseri e desolati, organizzando anche delle mostre. Denuncia sociale? Non esattamente, piuttosto espressione di quella pietas e solidarietà di cui dicevamo.

La verità è che regionalismo e verismo si fondono all’origine della poetica verghiana, ma solo all’inizio. Maturando umanamente e letterariamente, viaggiando per l’Italia e trasferendosi in altre città come Firenze, Milano e Torino, l’imitatore di Luigi Capuana, che era stato il primo caposcuola dei veristi italiani, da opere acerbe e tardoromantiche come I carbonari della montagna (1862), Sulle lagune (1863), Una peccatrice (1866), Tigre reale (1875) e altri romanzi e racconti minori, evolve verso i grandi libri che fanno di lui lo scrittore italiano più rappresentativo del tardo ’800 e del primo ’900, letto e apprezzato anche in Europa.

Prova ne è che fra 1881 e ’89 appaiono i suoi due capolavori, I Malavoglia e Mastro don Gesualdo, opere maiuscole che appartengono e si identificano con la nostra storia e identità. Uno legato al mare, l’altro alla terra. Il primo su una famiglia di pescatori, patriarcale, col pater familias Padron ‘Ntoni che pare un personaggio omerico, dell’Odissea più che dell’Iliade, con intorno il tutt’uno inseparabile della sua famiglia che condivide amore e fatica, speranza e tragedia, dolore e fallimento.

Il secondo gioiello è incentrato di più sul singolo protagonista, il contadino duro e malfidato che si spezza la schiena tutta la vita per arricchire. Ci riesce, ma paga il prezzo troppo alto dell’odio della sua gente e della morte, che lo rifà povero come e più di prima.

In definitiva, senza lasciare come scrittore la sua terra e la sua gente, il Verga maturo è diventato un autore universale e a tutto tondo. Rappresenta la natura, i sentimenti, i conflitti, insomma la verità dell’uomo sullo sfondo della realtà siciliana, che egli conosce profondamente. Lo dimostrano sia i due massimi romanzi, facenti parte del ciclo de I vinti rimasto incompleto, sia i piccoli grandi capolavori che sono i racconti come Rosso Malpelo, La roba e tanti altri, riuniti nelle Novelle rusticane (1883) e in Vita dei campi (1880 e 1897).

Il valore e la rappresentatività di Giovanni Verga erano già riconosciuti dai contemporanei nell’Italietta giolittiana, tanto che lo scrittore, che fra l’altro nella Sicilia borbonica era stato filo-risorgimentale fin da giovanissimo, fu nominato senatore a vita nel 1920. È chiaro che il suo realismo e la sua scrittura ispirata al canone dell’impersonalità mutuato dal naturalismo francese (vedere le cose freddamente, scientificamente, senza romanticismi), buona parte del pubblico e della cultura li preferiva all’enfasi e al narcisismo del Vate (D’Annunzio). E noi lo stesso.

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