Il Verdi di Luisa Miller

Fino al 17 febbraio l’opera è in scena al Teatro dell’Opera di Roma. Dirige Michele Mariotti nominato direttore musicale del complesso.
Foto Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma

In anticipo – avrebbe dovuto debuttare a novembre – ecco  Michele Mariotti, pesarese cresciuto a pane e Rossini (il padre è tra i fondatori del Rossini Opera Festival), che  sta diventando una delle giovane bacchette più esperte ormai a livello internazionale. E’ un uomo sensibile, cordiale, colto e preparato, che studia sempre. Ormai spazia anche su Verdi – memorabile un Attila a Bologna -, Bellini, Meyerbeer e si prepara a dirigere Mahler e Poulenc.  Affronta  con un gesto suadente, preciso e molto chiaro  i tre atti del melodramma tragico che Verdi trasse da Schiller nel 1849, e non fu un gran successo.

Si capisce. Verdi risente ancora di Donizetti, Rossini e Bellini – i primi due atti, certi ”crescendo”, certi cori pastorali o spezzettati, certe arie festose -, ma nel terzo compone uno dei migliori brani drammatici di tutto il teatro musicale ottocentesco. Si sente già il recitativo musicale del Rigoletto, il clarinetto della Traviata nella scena della lettera, i concertati e i duetti gonfi di dolore, quel clima di pianto e di nostalgia così verdiano. Ed in più il conflitto padre-figli maschi, tema fondamentale del compositore, mentre la donna è spesso vittima paterna e si rifugia nella preghiera per sopportare il dolore (ma  qui ci sarebbe i l discorso sulla religiosità verdiana e il suo sentimento di un Dio implacabile).

La storia dell’amore tra Rodolfo e Luisa, osteggiata dal padre di lui e dal perfido Wurm, finisce in tragedia. Verdi compone melodie struggenti (“Quando le sere al placido”, “Andrem raminghi e poveri”…) e insieme di  fuoco e di dolore, di una bellezza ricca di pathos, che commuove e prende per la sincerità, svelando un lavoro perfetto alla fine, un vero “ponte” tra il Verdi giovane e  quello maturo.

Mariotti cura parecchio l’orchestra, la cui qualità del suono cresce durante le repliche come slancio, morbidezza e colore, e poi i cantanti. Straordinario il baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat, possente e melodioso,sembra di riudire il grande Ettore Bastianini, coadiuvato dal basso Miche Pertusi, e  dal cattivo Wurm di Marco Spotti, abile attore malefico e voce molto calda  e fluente. Il tenore Antonio Poli è un Rodolfo più a suo agio nei cantabili sommessi come la Luisa delicatamente virtuosa di Roberta Mantegna. Stupisce la bella voce di Irene Savignano, promettente, mentre Daniela Barcellona rimane la valida cantante di sempre.

La regia di Damiano Micheletto è meno invasiva del solito: i due bambini “controfigure” dell’infanzia di Luisa e Rodolfo sono una idea non nuova,ma interessante e, nonostante pareti che si alzano e si chiudono, un mobile girevole e altre “invenzioni”, lo spettacolo funziona,  non ostacola la musica e non affatica troppo i cantanti, cosa da non dimenticare. Edizione notevole, da non perdere.

 

 

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