Verdi la morte e la vita
“Messa da Requiem”. Roma, Accademia Santa Cecilia. Forse, dopo aver accompagnato al passo estremo Leonora, Violetta ed Aida, Verdi ha voluto farsi indicare dalle sue creature cosa sia, cosa si provi in quell’ora? Chissà se Georges Prêtre, 77 anni, aveva questo in mente dando del Requiem non una lettura teatrale, ma lirica e sinfonica: una personale, spessa meditazione sulle domande essenziali. Prêtre, lasciando fraseggiare l’orchestra con sonorità non spettacolari, dolcezze non udite, pur nella speditezza dei tempi, oscilla tra due invocazioni: il “salva nos” che fa salire le lacrime per la sincerità fiduciosa, ed il “libera me”, cupa visione di un giudice senza amore. Più che un ateismo o agnosticismo dichiarato – come spesso si dice – allora, forse un viaggio “in ricerca” nel Verdi della maturità. Cantano bene i quattro solisti: Furlanetto, basso grandioso, rabbrividisce nel triplice “Mors”; Vargas, tenore che plana su un soavissimo (finalmente) “Hostias”, Myriam Gauci, soprano maltese di fresca voce, e Yvonne Naef, mezzosoprano espressivo. Potente il coro, specie nelle parti a cappella, diretto da Bressan. E Prêtre? Una direzione curatissima, non plateale: l’immobilità del maestro dopo le ultime note, le braccia lungo il corpo finché non si spegne l’eco della pace regalataci dopo tanto tumulto, dicono tutto. E spingono pubblico e orchestra (bravissima), grati, ad un uragano di applausi. “Un ballo in maschera”. Teatro dell’Opera. Cos’è la vita? Innamorarsi alla follia: correre, almeno una volta, questo rischio, pur sapendo che la morte (purificatrice) verrà. Ma ne vale la pena: nel second’atto, quando la musica esplode in una fra le più belle dichiarazioni d’amore d’ogni tempo, si raggiunge un acme e si prevede una fine. Intorno all’amore, impossibile e platonico fra il Conte Riccardo ed Amelia, ruota il “caleidoscopio umano” del Ballo: leggero, frizzante, ironico; ma anche dark, patetico, geloso. Gli conferisce unità la vena melodica abbondante – l’opera è popolarissima -, l’orchestra raffinata, la stringatezza teatrale. L’edizione romana – regia di Alberto Fassini, scene di Mauro Carosi, costumi di Odette Nicoletti – fastosa, onirica e un po’ statica, contava sulla direzione corretta di Donato Renzetti – con un’orchestra che avrebbe potuto esser più “fine” -, e su un cast fra cui emergeva il giovane siciliano Salvatore Licitra (Riccardo) generoso, potente, ma d’incerta disciplina (anche scenica); Ines Salazar (Amelia), Alexandru Agache (Renato), voce calda ma dizione imperfetta, ed Elisabetta Fiorillo, una Ulrica aggressiva. Spettacolo bello a vedersi, teatro pieno, applausi a scena aperta: dopo 142 anni il Ballo – nel coro finale di perdono, dopo il “minuetto di morte” – commuove ancora, Verdi resta un maestro del cuore.