Vento di scirocco
Ho saltato prefazione e introduzione quando mi sono ritrovata tra le mani Vento di scirocco… a Palermo, il romanzo di Roberto Mazzarella. Volevo andare dritto da lui, avevo urgenza di sentire le sue parole, toccare i suoi sentimenti, sorprendermi per le sue analisi intense e acute, lasciarmi ferire dalle sue provocazioni graffianti. Erano così i nostri incontri dal vivo e sapevo che non potevo aspettarmi di meno tra le sue pagine pubblicate a quasi tre anni dalla sua morte. Ho sorriso leggendo il titolo del primo capitolo: “Virusnelcervello”. «Eccoti, provocatore e provocatorio come sempre. Sei tu il virus nel cervello e hai osato scriverlo con le parole tutte attaccate!». E invece il virus del Roberto scrittore, giornalista, politologo, “migrante” – come lo definisce Leoluca Orlando nella prefazione – è questo amore viscerale per la sua Palermo, un virus da cui non è mai guarito e che, sono convinta, lo accompagni in questo Altrove dove ora vive.
Vento di scirocco non è un romanzo in senso classico. Non è organico, è scarmigliato, rude, e la trama non è lineare: eppure è un libro vero e vivo, è l’anima di un uomo messa a nudo dal dolore, dal tradimento, ma senza uscirne sconfitta. La sua vittoria silente consiste nell’intessere di piccole azioni di bene ogni mattone e ogni buca della città, con quella radicalità appresa da una maestra dello spirito trentina, Chiara Lubich, geograficamente agli antipodi della sua Sicilia, eppure estremamente complementare alla sua passione per gli ultimi. La storia dell’amicizia sofferta e fedele di Francesco e Silvio è il cuore del racconto e per chi ha vissuto con Roberto gli anni delle stragi del ’92 e la nascita della formazione politica La Rete, vi ritroverà tratti autobiografici e ricordi scomposti di una stagione della nostra democrazia, poco nota anche ai manuali di storia. I due vivono da inseparabili la rivoluzione gentile di Palermo, respirano il cambiamento nelle case e nei bar, sulle strade: un momento esaltante e appassionato che il pragmatismo politico, le logiche di appartenenza (i nomi nelle liste),la cultura del sospetto sbriciolano, rivelando a Silvio e a Francesco che la stagione del gelo non ha risparmiato la loro amicizia. Sullo sfondo c’è quell’intrigato e oscuro sistema di potere rappresentato da mafia, massoneria, servizi segreti deviati che per entrambi si traducono in scorta, minacce, tentativi di corruzione e ancora tradimenti. La crudezza di certe pagine è stemperata dall’amore delicato per un’amica (un inno all’amore) e dalla passione per Palermo, onnipresente come quel vento che la sferza di interrogativi: «Come fai ad amare, se dentro non ti scoppia il futuro? Come fai a darti, se con il cuore non sei mille anni avanti? Lo scirocco, vento bizzarro ma pervicace, con sempre maggiore frequenza fa rimbalzare questa domanda e insiste a scompaginare le cose ovvie e le risposte abusate».
Aldo Civico, esperto di risoluzione dei conflitti e docente di antropologia negli Usa, introducendo il libro, definisce Roberto «un profeta contemporaneo, che non si straccia le vesti, ma sussurra verità sferzanti pur capace di grande compassione», come quello scirocco afoso che a tempo debito sa anche diventare brezza ristoratrice.
Un’overdose di speranza. Essere estraneo a una città e non riuscire a condividerne i tormenti – non perché non si voglia ma, forse, per incapacità – deve essere una condizione, anche culturalmente, irrazionale. Come chi, non riuscendo a commuoversi del dolore altrui, non è capace di vivere il proprio, costretto a una tragica farsa, senza emozioni, senza ferite, senza sentimenti, senza rischi e tormenti, è vero, ma anche senza amore e, quindi, senza futuro. E chi non è già nel futuro, non è degno nemmeno di avere un passato! Quel pomeriggio Silvio avvertì un sentimento nuovo, scoprì la necessità di rendere visibile l’amore per la sua città. Solo, nella notte ormai avanzata e mentre ancora ammirava dall’alto la città, aveva in cuor suo preso la decisione: le sarebbe sceso incontro. Di più. Non sapeva ancora come, ma sarebbe entrato “dentro” la città, si sarebbe inabissato nelle sue piaghe e i suoi dolori, decisamente e con generosità. Intuiva – con il cuore e non certamente con la ragione – che stava per suggellarsi un patto con quella città e che avrebbe avuto un prezzo ma non avvertiva alcuna paura o voglia di tornare indietro. Troppo importante gli sembrava quel che era accaduto: da straniero era divenuto cittadino, da abitante, convivente. Quel momento fu, e lo capì in seguito, la zona di confine, lo spartiacque tra due modi di vivere o, meglio, tra un modo di esistere e un modo di essere.