Venezia, si parte

Ad aprire le danze è stato Black Swan di Darren Aronofsky, con Natalie Portman e Vincent Cassel. Un thriller psicologico, scandito dalle musiche di Cajkovskij.
black swan

È stato Black Swan, ovvero il Cigno nero, ad aprire la 67a edizione, affollata ma non troppo, e senza, per ora, eccessivo glamour. Il regista Darren Aronofsky ha già vinto il Leone d’oro due anni fa con The Wrestler, interpretato da Michey Rourke. Ora torna con un thriller psicologico complesso sulla vicenda di Nina, ballerina in forte competizione con le colleghe per la recita del Lago dei cigni. Scandito dalle musiche di Cajkovskij, il film unisce toni psicanalitici a scene erotiche, a narrare la vicenda di un "angelo" delicato, attento alla perfezione tecnica, incapace del male ma anche di vivere la vita. È il rapporto con una collega "diabolica" – o forse con la parte nera di sé stessa – a farle scoprire i lati più profondi e meno angelici del proprio io. Fino ad incarnare sulla scena alla perfezione il doppio ruolo, luminoso e tenebroso, del cigno. Melodrammatico, a tinte forti, il regista non si risparmia nell’indagare il conflitto bene-male e la passione turbinosa per l’arte. Totalmente coinvolta nel ruolo la protagonista Natalie Portman insieme a Vincent Cassel come direttore del balletto di New York, a raccontare un dramma eccessivo ma con un fondo di verità sulla fragilità ossessiva nel mondo dell’arte.

 

Altro mondo invece quello raccontato dal pittore e regista Julian Schnabel, a dire che davvero Venezia quest’anno sembra voler accontentare tutti i palati. Miral è la storia del conflitto tra palestinesi e israeliani visto attraverso la vicenda di Miral, una ragazza che da piccola viene inviata dal padre, retto musulmano palestinese, nell’istituto per bambini orfani gestito da Hind Husseini, una donna generosa che ha creato questa scuola ancora in funzione. Schnabel non parteggia per nessuna fazione, anche se uno sguardo di simpatia va per i palestinesi, gli orfani e i vecchi in particolare, sottolineando talora l’asprezza dei metodi israeliani. Il film, che vuole essere un invito ad entrambe le parti a decidersi per la pace, è stato molto applaudito dal pubblico, il che significa che il messaggio è passato. Certo Schnabel sa usare un ritmo narrativo senza pause, coinvolgente e anche commovente, una fotografia spesso bruciata, creando un senso di ansietà che rende quanto mai attuale tutto il racconto.

 

Siamo agli antipodi, come genere e come risultato, con Happy few del francese Anthony Cordier. Due coppie sulla trentina, sposate con figli, si incontrano, si piaccionio e iniziano un’avventura di interscambi personali ad ogni livello, supponendo che questo significhi un arricchimento delle loro relazioni. Ma scopriranno, anche attraverso il linguaggio muto dei figli, che questo abisso di passioni, anzichè nutrire il sentimento, lo umilia. Dalla confusione che ne nasce, faranno qualsiasi cosa per fuggire e forse ci riusciranno. Molto francese e quindi molto parlato, il film si dilunga con eccessivo compiacimento nell’erotismo come espressione sentimentale dei rapporti – siamo ancora una volta nell’ambito di professionisti – ma non scava a fondo nelle emozioni, dimostra un’amoralità senza sconti ed è il ritratto dell’infelicità di certi trentenni attuali. In verità, non se ne sentiva proprio il bisogno, visto che il cliché dello scambio di coppia, della ricerca di nuove sensazioni, è già molto visto nel cinema.

 

Ma la Francia è la Francia. Così una regista provocatrice come Catherine Breillat rivisita La bella Addormentata creando una favola che favola non è, bensì la storia un po’ crudele di una bambina costretta a crescere in fretta, diventando madre anzitempo. Onirico, selvaggio in qualche parte, drammatico, dimostra il talento di una regista scomoda che produce lavori sconcertanti,ma sempre originale.

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