Venezia si avvia al finale
Stiamo arrivando ormai verso il finale della rassegna veneziana. Se è vero che, come si diceva, la religione rimane il tema legante – in qualche misura – della mostra, è anche vero che non mancano altre tematiche. In primo luogo quelle autobiografiche. È una delle tendenze attuali del cinema, un bisogno quasi ossessivo di raccontarsi.
Cominciamo dalla rilettura che Sthéphane Brizé fa di Maupassant nel film Une vie, che parla della vita "non buona né cattiva". La storia è quella delle ventenne Jeanne, romanticissima ragazza della Normandia, che si sveglia di fronte alle difficoltà della vita: un marito infedele e rigido, un figlio che la sfrutta, una madre idealizzata e poi scoperta tutt’altro che perfetta, debiti e solitudine. Inutile negarlo, la rilettura delle opere letterarie del passato – ce ne sono diverse a Venezia – nasconde la verità di un presente doloroso e la necessità di raccontarlo in prima persona. Brizé non edulcora nulla, anche se costumi e ambienti sono "in stile" e il gioco della sofferenza è fatto più di allusioni melodrammatiche – tipiche dell’epoca – che di drammi esplosivi. La conclusione è comunque sospesa: la vita è una miscela di bene e male, di dolore e di brevi gioie, allora come oggi. La sincera protagonista Judith Chemla è spesso filmata in primi piani spiazzanti, perché ne rivelano il carattere appassionato sino quasi all’isteria, ma è bella e convincente, aiutata dal formato "quadrato" dello schermo che la rende ancor più credibile e comunicativa.
Una sorta di autobiografia è poi lo sconcertante The bad batch della regista Ana Lily Amirpour, collocato nel deserto del Texas in un mondo apocalittico dove si vive tra cannibalismo e droga. La bionda ragazza che viaggia cercando la libertà viene fatta a pezzi dai cannibali, ma scappa e si ritrova, dopo una serie di avventure surreali, a salvare la figlia di un erculeo “cannibale” cubano con cui poi si mette insieme. Forse ha trovato un modo di far convivere crudeltà e disumanità ad amore? Chissà. Il film, truculento e scioccante – forse è davvero troppo questa volta –, inscena una metafora della società attuale, ormai off limits, dove in pratica la ragazza (l’attrice inglese Suki Waterhouse, 24 anni) si racconta tra figure di pazzi (addirittura Jim Carrey) e di “strafatti”, come il poligamo Keanu Reeves? Se voleva imitare i film di Tarantino, la regista c’è riuscita, ma esagerando e dando l’impressione di qualcosa di morboso nella sua immaginazione, fatta passare per cinema.
Chi si racconta per davvero è Kim Rossi Stuart, regista e protagonista del suo secondo film Tommaso. Tomamso è un attore eccentrico, narcisista, un quarantenne mai uscito dall’adolescenza, che vive storie con donne una dopo l’altra, va dallo psicanalista, fa sogni o meglio incubi, è capriccioso, instabile, recita sempre. Anche nella vita reale, ormai senza accorgersene, così che non capisce nemmeno lui stesso quando ciò che dice sia vero o falso. È ossessionato dal sesso, ha un rapporto conflittuale con la madre, fa i capricci come un divo del cinema e non riesce ad avere una relazione serena con le donne, tutte più mature o più scaltre di lui.
Il film è imperfetto, diciamolo pure: un po’ perché Kim è fin troppo presente corpo e anima, e legnoso a tratti nella recitazione, un po’ perché certe scene sono slegate fra loro e fin troppo “recitate” (il litigio tra madre e figlio), un po’ perché la vena onirica e surreale appare eccessiva nel contesto di una autobiografia che vorrebbe essere immediata e semplice. Forse al film manca la scorrevolezza del precedente, Anche libero va bene, la capacità di “spiccare il volo”. Detto questo, non mi sembra di dire che si tratti di un film sbagliato. Le donne sono la parte migliore, forse: Cristiana Capotondi, Jasmine Trinca, in particolare. L’ironia che sfiora talora il sarcasmo è evidente ed è lo sguardo più riuscito, nonostante si vogliano dire troppe cose. E, forse, Rossi Stuart filma in parte un suo ritratto, perché sotto le spoglie di Tommaso si può intravedere proprio lui, il figlio d’arte diventato un divo bello e ombroso, con paure e incertezze mai sopite del tutto. Perciò, potremmo definire, in qualche modo, questo film l’autobiografia di una generazione e una sorta di “biografia” attoriale.
Francesco Munzi, romano doc, aveva nove anni quando Moro fu rapito. Ora, con il docufilm Assalto al cielo, scova tra il materiale d’archivio e ci ripresenta in 70 minuti gli Anni di piombo, una rivisitazione di alcune fasi, ovviamente. Fa bene e male vedere questo lavoro, accolto con entusiasmo. Bene, perché il passato svela una storia che non dobbiamo dimenticare e che per fortuna sembra passata; male, per gli ideali che hanno spinto la rivoluzione, pur tra errori ed eccessi, giovanile ed operaia, ed oggi appaiono spenti. È l’autobiografia dell’Italia, quella che ci sta ancora alle spalle. Da non perdere.