Venezia premia le “povere anime”
C’è dolore, disperazione. Ci sono mostruosità nel mondo ed anche una insaziabile ricerca di libertà e di felicità. Ovunque, nei 23 film in concorso, in quelli fuori concorso e nelle diverse sezioni come Orizzonti e così via. La rassegna veneziana molto (troppo?) affollata di lavori – anche nostri e forse non tutti meritevoli di esserci – ha girato lo sguardo verso una umanità sofferente.
Così il regista greco Yorgos Lanthimos, 50 anni, vince con il suo “Poor Things”, allucinato, mostruoso, iperbarocco, il Leone d’Oro. La storia della creatura forgiata da un medico – mostro (Willem Defoe), cervello di bambina che poi sviluppa la conoscenza dei rapporti, del sesso, forse dell’amore, è metafora della orribilità delle sperimentazioni genetiche attuali e sia di creature “usate” dall’uomo come cavie per finire come esseri anormali che tuttavia cercano amore. Questa ricerca permea anche il film della polacca Holland, che riceve il Premio speciale della giuria per il suo “Green Border” sui migranti al confine tra Bielorussia e Polonia (contestato dal governo polacco).
A proposito di migranti, ecco il Leone d’Argento (miglior regia) al delicato e terribile Io capitano di Garrone, dove il giovane Seydour Sarr ha ricevuto il premio Mastroianni come miglior attore emergente. Un film, questo di Garrone, già premiato dal pubblico in sala per lo sguardo sui giovani migranti dal loro punto di vista, non da quello italiano o europeo, in quel viaggio tra dolore e speranza.
Peccato che il film Dogman di Besson non abbia avuto l’attenzione che si meritava: in fondo l’uomo dei cani era sì un mostruoso frutto del disamore familiare, ma un mostro in cerca di amore e di Dio. E spiace che anche il film “filosofico” di Liliana Cavani non sia stato da molti ben compreso. Forse perché i suoi temi non sono secondo il “pensiero comune”?
Certo, l’Italia era molto presente in ogni sezione. Bisogna dire che forse è nociva l’insistenza sulla “romanità”, su film che parlano a vario titolo del degrado della capitale, come ad esempio Adagio (bello in certi punti) o Enea del giovane Castellitto. In fondo si batte sempre sugli stessi tasti, un po’ anche Felicità, opera prima di Micaela Ramazzotti, con la sua prima regia, Premio del pubblico nella sezione Orizzonti extra.
Rimangono alcune osservazioni. Perché premiare come miglior attrice la venticinquenne Cailee Spaney di Priscilla – non pare un capolavoro –, e come attore Peter Sarsgaard e non pensare alla interpretazione stupenda in Dogman di Caleb Landry Jones o di Léa Séydoux in La Bete? Ma la giuria di registi, guidata da Chazelle, si è presa le sue libertà.
Per fortuna il Gran Premio della Giuria è andato all’inno alla natura del film di Hamaguchi, molto più meritevole del premio alla sceneggiatura del grottesco e ripetitivo Pinochet-vampiro nel film di Larraìn El Conde.
Nonostante tutto, la rassegna ha funzionato, il livello dei film è stato sovente sul medio-alto. Nonostante l’assenza di grandi star americane, la presenza di tante (talora inutili) star e starlette nostrane, nonostante i prezzi, la mostra ha evitato in genere il provincialismo italico, ed ha presentato una visione a largo raggio del nostro mondo, attraversato dal dolore e dalla ricerca della felicità.
__