Venezia premia la vita

Leone d'oro all'israeliano "Lebanon" e d'argento all'iraniano "Women without men". Film contro la guerra e la sopraffazione. L'Italia delusa in panchina.
Venezia premia la vita

Lasciamo perdere la passerella mediatica. George Clooney e Milingo, Noemi e la D’Addario, il presidente Chavez osannato come una star, le bandiere rosse e i nostalgici del comunismo duro e puro in un festival dove la politica è entrata, in modo anche pesante, con il ritiro forzato del film Francesca… L’arte cinematografica è altra cosa. E quest’anno, a differenza di alcune edizioni del recente passato, il livello dei lavori presentati era spesso più che dignitoso. Si rifletteva forse di più, c’era minor gusto trasgressivo – qualcuno se ne è lamentato (non ci basta la tivù?) –, ma maggior contenuto.

La giuria presieduta dal regista Ang Lee si è orientata, nel grande mare delle opere presentate nelle diverse sezioni, senza un apparente fil rouge conduttore, verso lavori che esprimessero le aspirazioni dell’oggi. Questo spiega il Leone a Lebanon in cui l’israeliano Samuel Maoz ha rivissuto la propria esperienza di soldato durante l’invasione del Libano nel 1982: qui, per la prima volta, ha ucciso un uomo. La storia dei quattro ventenni chiusi in un carro armato mentre intorno divampa la guerra che riduce gli uomini al puro istinto di sopravvivenza è tesa, serrata, psicologicamente vera. Si esce con un sentimento di rifiuto verso ogni guerra: dopo averla provata, «un uomo non è più come prima», ha affermato il regista.

È lo stesso sentimento che esprime la regista iraniana Shirin Neshat – Leone d’argento – che nel suo Women Without Men (Donne senza uomini) analizza dolorosamente la condizione della donna ai tempi dello scià. Si parla dunque del passato, ma per dire la necessità della pace e della concordia nel presente.

Un messaggio “politico” è sotteso, evidentemente: non disturba, perché gli autori riescono a dire, anche nel claustrofobico Lebanon – tutto si svolge dentro un carro armato –, parole universali.

 

Purtroppo, è ciò che è mancato ai due film italiani più quotati per il Leone o un altro grosso premio, cioè Baaria e Il grande sogno. A Baaria di Tornatore, grande spettacolo di oltre due ore, ha nuociuto l’ambizione di un epos che vuole raccontare tutto, disperdendosi però in mille camei che offuscano la linearità della storia; mentre il Placido de Il grande sogno – oltre le polemiche innestate dal regista stesso e la “consolazione” del premio Mastroianni alla miglior attrice emergente, Jasmine Trinca (con già otto film alle spalle…) – si è rivelato più che altro un abile illustratore di un ’68 in parte autobiografico. Diversamente dai “piccoli” (?) film italiani della rinata sezione Controcampo, come Il compleanno, di Marco Filiberti, Dieci inverni di Valerio Mieli e il vincitore, Il cosmonauta di Susanna Nicchiarelli: lavori differenti tra loro, ma ricchi di originalità e di fantasia. Tale da dare speranza ai nostri giovani autori.

Pace o desiderio di concordia, dunque, alla Mostra. Cioè, tanta, tantissima voglia di vivere. Si spiega così l’insistente desiderio di paternità che lega tra loro il bellissimo, forse incompreso, The Road (La strada) di John Hillcoat – padre e figlio piccolo in una terra distrutta – con Life During War Time (Vita in tempi di guerra) di Todd Solondz, che chiude con l’invocazione: «Voglio un padre»; l’amore alla vita che unisce l’enigmatico Lourdes – rivisitazione “laica” del santuario, premiato dalla stampa cattolica – con l’attesa di maternità di una grande Margherita Buy ne Lo spazio bianco di Francesca Comencini. Ma anche il romantico A Single Man (Un uomo solo) che ha visto premiato il protagonista Colin Firth e il sorridente (finalmente!) Soul Kitchen, Premio speciale della giuria al regista tedesco Fatih Akin. Una commedia esilarante di un giovane ristoratore greco che, tra mille guai, finisce per averla vinta con il suo sogno.

In un festival dove si è passati dalla guerra all’apocalissi e all’orrore, dai tormenti interiori alle denunce politicamente scorrette di Stone e Moore, premiare un divertimento intelligente è risultato, alla fin fine, un ulteriore atto di fiducia nella vita e nella capacità del cinema di raccontarla. Nonostante i timori per il suo futuro, certe pesantezze mondane e nostalgie politiche, a Venezia quest’anno si è forse ritrovata la strada giusta. Quella di guardare all’arte e al suo linguaggio universale. Lo capiranno anche alcuni nostri autori, di grande ambizione ma di piccola anima?

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