Venezia premia il dolore
È finita anche la rassegna veneziana. La settantunesima: glamour (parata di stelle, Al Pacino e Catherine Deneuve in testa), giuria internazionale non facile, non troppa folla, clima in genere sereno, film da tutto il mondo. Grande esclusa, però, l’Africa.
Livello dei prodotti in genere buono, tranne alcuni lavori o costruiti apposta per le vecchie glorie – il logorroico Manglehorn con Al Pacino -, o, purtroppo, pretenziosi – La vita oscena del nostro Renato De Maria – o troppo superficiali come Cymbeline con Ethan Hawke (altra star presente con due film), e ci fermiamo qui.
In compenso, il festival ha accolto, pare, la sofferenza da ogni latitudine del mondo, sia dentro le famiglie come nelle nazioni e fra gli individui. Perciò se il ricordo della Rivoluzione attanaglia la coscienza dell’anziana nel cinese Red Amnesia, o delle stragi indonesiane in The look of silence (Gran premio della giuria) , c’è tuttavia il riscatto morale del giovane operaio sfrattato in 99 Homes dove un bravissimo Andrew Garfield impersona l’uomo che scende agli inferi, ma poi ne risale o quello del soldato-insegnante Viggo Mortensen in Loin des hommes che costruisce un rapporto di pace con un nemico durante la guerra algerina.
Dolore anche in famiglia con Anime Nere, film di Francesco Munzi, ingiustamente non premiato, su sangue e vendetta in Calabria dal sapore surreale e metafisico; e madri ossessive in Hungry Hearts di Saverio Costanzo, con la Coppa Volpi ad Alba Rohrwacher (nella foto) e Adam Driver – giovane star americana emergente – dimenticando Willem Dafoe nel notturno Pasolini di Abel Ferrara e l’incandescente Elio Germano nel sommesso e tenero Il giovane favoloso di Martone, entrambi i film snobbati dalla giuria internazionale, ancora una volta, a mio parere, immeritatamente. Il premio ad Alba Rohrwacher – la sorella ha già vinto a Cannes – porta il dubbio, al di là della sua bravura indubbia, se davvero sia il caso di infittire di riconoscimenti sempre le medesime persone, quando ce ne sono altre, di notevole, se non uguale o superiore, spessore artistico.
Certo il film di Costanzo delinea un ritratto oscuro del mondo familiare, da domandarci se sia davvero il caso di continuare a filmare storie di eccessi, quando, ad esempio, il cinema francese – ben quattro lavori a Venezia! – vi sa sorridere (3 Coeurs di Benoit Jacquot) e mostrare un raggio di sole (Le dernier coup de marteau per il quale il ragazzino Romain Paul ha vinto il Mastroianni come miglior attore emergente).
Il cinema italiano comunque ha fatto la sua parte ed ha dimostrato di essere vivo, così da sperare che non ci si debba sempre riferire ai mostri sacri del passato, da Fellini a Rossellini e compagni.
Meno male che a Venezia la poesia ha avuto il suo riconoscimento. Mi riferisco al piccione filosofo dello svedese Andersson vincitore del Leone d’oro e al postino poetico del Leone d’argento di Končalovskij. Poesia anche nel convegno che la Fondazione Ente dello Spettacolo ha dedicato al Vangelo di Pasolini e poesia – anche se più piccola – nel premio Bresson a Carlo Verdone, commosso dal riconoscimento che ha dedicato al padre. In mostra ci vogliono anche questi momenti che rasserenano.