Venezia è partita!
C’è perfino spazio per sorridere nelle commedie francesi capolavori di leggerezza come Cherchez Hortense – che speriamo arrivi in sala – su un dramma familiare (lei che tradisce lui, il figlio trascurato e lui che s’innamora…) affrontato con dolcezza anche nei risvolti acuti, ma che il regista Pascal Bonitzer stempera in momenti di ironia dolce. Come a dire: non facciamo tragedie, affrontiamo la vita con levità.
Del resto per l’amore c’è sempre spazio. Lo dice Suzane Bier nel suo Love is all you Need, girato sulla costa sorrentina. Intrecci familiari, lutti da elaborare, fidanzati giovani incerti sul futuro, la classica moglie malata di cancro tradita dal marito…: insomma, un mélo grazioso, divertente e saporoso come la stupenda fotografia. Ma il film – in uscita a Natale – non è superficiale, perchè la Bier dietro la commedia parla sempre di amore e di fedeltà, con la sua semplicità di stile.
E c'è ancora amore, questa volta in un ambiente ebraico ultraortodosso, dove è difficile elaborare il lutto da parte di un giovane marito vedovo con un bambino, mentre il paternalismo familiare e sociale decide sul futuro matrimonio della più piccola in casa delle sorelle, ma la più tenace a conquistarsi la libertà dei sentimenti. Sguardo sulla religione e le sue leggi dure e sguardo anche sulla forza dell’amore, nell’israeliano Fill the Void di Rama Burshtein.
Finchè si arriva al momento artisticamente finora forse più alto. To the Wonder di Terrence Malick, con una sala strapiena e un silenzio attonito, è opera di straordinario spessore cinematografico e contenutistico. Una preghiera visiva sull’amore e all’amore, cosparso o meglio raccontato in “visioni” naturalistiche (Parigi, le campagne Usa, la montagna di Saint-Malo) fra cui si svolge la storia di una coppia che cerca l’amore, lo perde, lo tradisce, lo ritrova. Una trama esile, nota perché contemporanea, che Malick non vuole narrare ma meditare e con-soffrire con questa umanità assetata e incapace di amore, e assalita dal dubbio su Dio e l’amore divino che si nasconde, come capita a Javier Bardem, prete in crisi che pure parla d’amore.
Film luminoso e nebuloso, mistico e reale, forse troppo lungo, ma comunque capace di riflessioni esistenziali come poco cinema oggi è capace. E destinato a incuriosire e perché no a dividere, com’è accaduto in sala, alla proiezione stampa. Segno che Malick coinvolge e mette in crisi.
C’è in effetti da pensare su quanto avviene nel mondo.
È stato il figlio di Daniele Ciprì è un lamento disperato non tanto e non solo su una Palermo feroce, schiava del consumismo, di una mafia che nasce in casa, imbarbarita, ma su tutto l’Occidente, vittima dell’illusione dei soldi e dell’avere, che sgretola gli affetti e produce la falsità. Per una macchina, un poveraccio, Nicola è disposto a tutto e la macchina, simbolo di ricchezza, lo farà morire. Ciprì, giocando su più registri, dal surreale al grottesco, dal satirico al drammatico, inventa una disperata pietà per i miserabili dell’oggi, della Sicilia disumanizzata ma anche del mondo dei poveri, illuso dal benessere. Parabola desolata e inquietante, il film appassiona commuove e fa soffrire.
Infine, The Master di Paul Thomas Anderson ritorna al tema religioso indagando le sette americane del dopoguerra – si pensa subito a Scientology – che si impossessano dei deboli. Gioco di violenze psicologiche pesanti, recitato alla grande da Joachim Phoenix, è una dichiarazione aperta e pressante sulla devianza pseudoreligiosa. Di grande effetto. Venezia è proprio in viaggio…..