Venezia dalla parte dei migranti
È dolce e potente Io capitano di Matteo Garrone. L’emigrazione di due sedicenni del Senegal è vista dal regista con i loro occhi più che con i suoi. Il risultato è a metà strada tra favola, realismo e compassione, ma forte, misurato. Un epos tragico è il sogno di Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall) di una Europa dove possono diventare delle star musicali, lasciando così di nascosto le famiglie modeste ma non poverissime e incamminandosi tra mille pericoli: il deserto, gli sfruttatori, la fame e la sete, le torture in Libia, il barcone che il sedicenne Seydou deve imparare a guidare per arrivare in Sicilia.
Il film è tutto negli occhi dei due ragazzi e nel “popolo” che si trascina dietro, nei rischi e nel dolore delle percosse in cui i due crescono, diventano uomini, e cominciano a capire cosa sia la vita e come le illusioni possano far perdere la traccia. Garrone, che ascoltato molti racconti di migranti, ha su di loro uno sguardo di umanità tenerissimo e sobrio come pure sulla fila dei migranti. Una umanità che è negli occhi e nel cuore di Seydou che è compassionevole di natura, è ingenuo e incantato, ma poi anche deciso a combattere finché griderà all’elicottero italiano di soccorso «io sono il capitano»: grido di vittoria per una viaggio della vita che lo porterà, si spera, alla felicità.
Ma Garrone ha l’intelligenza di fermarsi a non descrivere lo sbarco in Italia. Descrive invece a pennellate rapide e forti (il deserto, la donna che muore di stenti, le torture…) l’odissea di questi due giovani e della gente con la quale si trovano, ma anche la solidarietà reciproca dei sofferenti in una naturale fratellanza in un esodo in mano a sfruttatori senza cuore.
Interpretato magnificamente dai due giovani attori, quest’opera individuale e corale insieme, veloce ed onirica – il Pinocchio di Garrone, momenti stupendi -, delicata e drammatica, lascia senza fiato, ma senza terrore. Fotografata luminosamente anche di notte, in modo caravaggesco si direbbe, connette scena a scena con ritmicità ordinata. La finestra si spalanca sul mare come sul deserto e apre il sogno giovanile a orizzonti nuovi come una biblica terra promessa. Candidato sicuro al Leone d’oro.
La polacca Holland racconta anche lei una favola vera, ma nera in Green Border dove i gendarmi con i manganelli e i cani rincorrono i migranti che forzano il filo spinato tra Bielorussia e Polonia. Nessuna pietà: posti di blocco, disumanità, i migranti dalla frontiera polacca vengono respinti in Bielorussia dove verranno torturati. Proprio in queste terre che ora assistono al conflitto russo-ucraino. La regista ha il merito di gridare contro questo scandalo disumano. Verrà ascoltata?
Sembra proprio un altro mondo quello di Enea, l’opera seconda, addirittura in concorso, di Pietro Castellitto, figlio d’arte. Il mondo romano dei ragazzi che hanno soldi e fanno la bella vita, senza scrupoli né ideali, vittime di un nichilismo che li soddisfa e li annienta allo stesso tempo. Sono ragazzi privi di qualsiasi coscienza, sono l’indifferenza mostrata e vissuta. Film di denuncia? Non troppo, perché il giovane regista deve forse attendere di maturare per dire qualcosa di nuovo, ma ha il tempo dalla sua parte.
Quanto al resto, la mostra procede, nonostante gli insulti a Woody Allen e a Polanski, e le star grandi e piccine (c’è molta, troppa Italia…) e concedendo, il Premio Bresson dell’Ente dello Spettacolo ad un regista valoroso come Mario Martone e ricordando la scomparsa di un personaggio come il regista Giuliano Montaldo.