Venezia comincia da drammi sociali e commedie
Se il buon giorno si vede dal mattino, diciamo che le mattinate veneziane sono promettenti. Il festival parte dai drammi sociali e non delude. The look of silence di Joshua Oppenhimer traccia l’orrore di presunti comunisti uccisi – un milione! – dalle squadre della morte in Indonesia, in un documentario dove l’armonia dei luoghi contrasta col rosso dell’eccidio. Per non dimenticare. E qui la memoria è affidata ai vecchi il cui sguardo dice più delle parole.
Si passa poi al film 99 Homes di Ramin Bahrami con star intelligenti come Andrew Garfield (interprete dell’ultimo Superman) con la faccia pulita di un operaio con figlio e madre a carico cui le banche, grazie al trafficante Michael Shannon – faccia dura indimenticabile – tolgono la casa di famiglia. Disperato, l’uomo cede alle lusinghe dell’intermediario e lo affianca nella suo lavoro. Cade nell’inferno, ma l’umanità sana che è in lui ritorna a galla. Un film che fotografa un vero dramma sociale e denuncia con fierezza una nazione in crisi “che si è fatta e si fa con i vincenti” ma al contempo trasmette il messaggio che la disonestà alla fine non paga. Una regia asciutta come il montaggio, un ritmo in cui non si perde un colpo, una recitazione che scolpisce i personaggi di una storia dura che va dritta allo spettatore fanno della pellicola un esempio della classe del cinema americano.
La prima volta dell’Italia è affidata a Francesco Munzi. Sensibile ai dolori dell’umanità più emarginata, come dimostra il suo bel film d’esordio Saimir, ora in Anime Nere entra nella Calabria più atavica e racconta una storia alta e tragica, come un dramma greco, di faide familiari da cui non si riesce ad uscire. Un grigiore di luci, specchio della negritudine interiore, avvolge vecchi e giovani e corre lungo il racconto affannoso, dove la bravura degli attori – professionisti e non – arricchisce la fotografia sporca di un viaggio attraverso una quasi impossibile possibilità di riscatto e di pace. Il finale aperto lascia la soluzione allo spettatore. Domina su tutto la silenziosa figura di Luciano, il fratello che vorrebbe in qualche modo rinascere. Film cupissimo e dolorante, senza respiro.
Delude invece La vita oscena di Renato De Maria con una Isabella Ferrrari nei panni materni, con un figlio ipersensibile e poeta, che, rimasto orfano, non supera il dramma ma precipita negli inferi di droga, alcol, sesso, per poi a fatica uscirne. Racconto di formazione ambizioso, ma slegato. Troppo simbolico e allungato, il film sa di cerebrale e non avvince, se non per la bravura del giovane protagonista.
Dopo tanti occhi sull’infelicità dei popoli e dei singoli, ci voleva la commedia esilarante e festosa di Peter Bogdanovich She’s Funny That Way per ridere, senza gli intellettualismi di Woody Allen, sugli equivoci di un gruppo che prepara uno spettacolo teatrale: il personale e il pubblico non hanno confine e ci si diverte in questa commedia americana dell’arte, cui noi italiani ora difficilme arriviamo come freschezza e gioia.
Insomma, Venezia regala spunti di vita, tra dolore e leggerezza.