Venezia apre con l’infinito

Uno sguardo alle prime proposte di questa 70esima edizione: la fantascienza di "Gravity", con Sandra Bullock e George Clooney, "Via castellana bandiera" di Emma Dante, "Tracks" di John Curran
70esima Mostra del cinema di Venezia

Settant’anni non sono pochi, ma si possono portare bene. Venezia ci sta provando. Ha aperto con la coppia di star Clloney-Bullock in Gravity, filmone fantascientifico che ha alle spalle – e lo si vede – Kubrick, ma cerca di risolvere il dramma dei due astronauti perduti nell’universo miscelando umorismo (di  Clooney) e introspezione della Bullock, che si porta dietro un passato angoscioso. Fra problemi di connessione con Huston, detriti cosmici pericolosi e momenti di ricerca metafisica («Nessuno mi ha mai insegnato a pregare», dice lei angosciata), il film procede attraverso visioni cosmiche davvero stupende e rabbrividenti per giungere alla salvezza della donna che deve, molto americanamente, al proprio coraggio il ritorno in terra e la salvezza, dopo che l’uomo solo nel cosmo ha avuto paura e (poca)speranza. Ben fatto, spettacolare, recitato da due star hollywoodiane, e con un pizzico di spiritualità, il film è piaciuto e piacerà, perché è in grado di accontentare un po’ tutti.

E veniamo ai primi due film in concorso. Via Castellana Bandiera della palermitana Emma Dante, opera prima al cinema, tratto dal suo romanzo omonimo, lascia libero lo spettatore di fornirne una interpretazione personale, dato che è un lavoro di forte valenza metaforica che la regista spiega fino a un certo punto. Due auto si incrociano in una strada-budello e nessuna vuole lasciare la strada libera per prima all’altra: alla guida due donne, un'anziana albanese muta, Samira (una meravigliosa Elena Cotta, che recita  col corpo e gli occchi), e un’arrabbiata  donna (la regista stessa, attrice non eccelsa) insieme alla sua compagna (Alba Rohrwacher in versione punk). Intorno, il  mondo di un vicolo sotto il Monte Pellegrino, scenario rupestre di questa tragedia ancestrale, riproposta in una Palermo laida, sporca, dagli istinti primitivi. Senza luce nei corpi e nei volti, anche dei bambini.

Il duello dura la notte e il giorno, tra il cozzare delle passioni istintive nei personaggi e una atmosfera di cupezza tragica si riflette in uno stato quasi delirante, estremo. Unica pallida luce l’amicizia di un adolescente con Samira, l’unico momento di un affetto vero. Per il resto l’aria è tra il grottesco, il surreale e il fatale. In realtà il piccolo mondo di questa via è metafora del mondo intero, tant’è vero che la strada stretta poi alla fine si allargherà con una evidenza simbolica a significare appunto la vita e il mondo d’oggi.

Grande protagonista è la morte. Dal mare sporco di rifiuti con cui si apre il film, alle facce dei personaggi – anche l’amore fra le due donne vive una morte seppur momentanea –, alla scena veramente terribile di Samira, morta con le mani attaccate al volante al grido di dolore immenso del ragazzo, forse il momento veramente poetico del film – fino a quel precipizio finale di cui non si ode il tonfo e alla gente che, come in un coro di tragedia arcaica (o come nel finale di Cavalleria rusticana di Verga-Mascagni) accorre, senza sapere il perché o come andrà a finire. Ci sarà una qualche rinascita o il ciclo dell’eterno fatalismo mediterraneo farà ricominciare tutto da capo, o meglio restare sempre tutto immobile, perché nulla è possibile?

La direzione sembra quest’ultima, anche se il ragazzino pare una piccola fiammella… Girato con cura, il film è ambizioso e in certi momenti ripetitivo, con concessioni alla moda (le donne lesbiche che nulla aggiungono al film) e momenti di pesantezza, anche se è notevole lo sforzo della regista di attutire la cupezza del racconto con alcuni tocchi di natura e di silenzio in questa tragedia corale di mondi fra l’antico e l’attuale (le due donne, gli uomini sono un contorno) identiche nella durezza e nell’amore-odio.

Altra cosa  è Tracks di John Curran, che racconta della traversata dell’esploratrice Robyn Davidson nel deserto australiano. Fotografia stupenda, narrazione stringata lungo i deserti, e Mia Wasikowska nei panni dell’eroina determinata che alla fine vince la sfida soprattutto con sé stessa. Film con una lieve tensione drammatica e piscologica, ma rilassante.

Venezia ha aperto anche con altri film della sezione "Giornate degli autori". Lasciamo passare il trasgressivo e provocatorio  Gerontophilia del canadese Bruce LaBruce che narra di un giovane che fa sesso con gli anziani, e pare fatto apposta per lanciare il messaggio dell’amoralità “rivoluzionaria” e contro natura, come si dice chiaramente: è certo che alcuni per ingenuità o moda  ci crederanno…

Molto interessante invece La belle vie del francese Jean Denizot, storia di due fratelli che il padre cresce lontano dalla madre: storia di formazione alla vita, delicata e autentica. Insomma lo spettro dell’indagine sulla vita attuale. Vediamo se e come si allarga nei prossimi giorni.

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