Venezia alza il tiro

Dal dramma tragico e buffo di Sorrentino ai ricordi dolorosi di una donna sola ad un maschilismo fragile. Alla mostra la qualità si fa strada.

È l’Amarcord di Fellini in salsa sorrentiniana? Il pensiero viene, ma il regista napoletano non è Federico, anche se lo cita nel suo È stata la mano di Dio. Lavoro che a molti è piaciuto, ad alcuni non si sa bene, a diversi giovani critici non troppo. La prima cosa da notare, dopo oltre due ore- scorrevoli – girate con mano esperta dal premio Oscar -, è che questo lavoro in qualche maniera superi addirittura La Grande Bellezza. Lo sguardo è sempre immaginifico, la visionarietà di Napoli una pioggia di colori – che sono stati d’animo e storie fuse con altre storie -, la fotografia nei  risvolti anche psicologici giusta ed il ritmo cadenzato tra l’opera buffa – i pranzi con la famiglia e i parenti, le baruffe, il fratino miracoloso, le botte e le battute esilaranti – e i l dramma inesorabile e muto, senza alcuna risorsa di carattere spirituale. Il ragazzo Fabio (uno straordinario Filippo Scotti, affiancato dalla coppia perfetta Toni Servillo e Teresa Saponangelo, i suoi genitori nel film) vive in una famiglia allegra, e problematica in un quartiere popolare di cui Sorrentino si diverte a riproporre fatti e abitudini, gioco e mestizia: la Napoli dell’invenzione, della battuta giocosa e talora mesta. Il tono sempre tende al surreale, come Totò. L’idolo del diciassettenne è Maradona che diventa il dio di Napoli.

Nella note in cui Fabio è allo stadio dal suo idolo, i genitori muoiono, rimane orfano con il fratello. La scena all’ospedale è straziante: Sorrentino  gioca la carta del dolore inesprimibile – il ragazzo non riesce a piangere- atroce e senza speranza, perché la speranza nel regista è una voce, quando c’è, assai fievole. Scena commovente e rabbrividente perché vera,  tragedia dell’orfanezza e della morte: decisamente autobiografica. Poi, il ragazzo scopre la vita fuori casa: camorra, la “prima volta”, la passione per il cinema – il lungo colloquio col regista Capuano in un ambiente teatrale-surreale, che gli consiglia di non uscire da Napoli e la decisione di fare il regista e salire a Roma. Senza mai dimenticare Napoli a cui Sorrentino dedica un lavoro appassionato, commosso e velato di quella tristezza-amarezza che è un sigillo dei suoi lavori e forse nasconde la paura di soffrire. Perché per Sorrentino la felicità sembra non possa esistere. Candidato certo al Leone, fotografato in maniera poetica, con un cast eccellente (Luisa Ranieri, Biagio Manna, Renato Carpentieri…) il film passa dal pudore dell’autobiografia alla magia visionaria e lussureggiante alle riflessioni sulla  carriera. «Non andare a Roma, qui a Napoli c’è tanto da raccontare», era stata l’ammonizione di Capuano, inascoltata. Forse Sorrentino, carico di premi e di lavori, si sta voltando indietro a ripercorre il passato, e a dire finalmente con sincerità chi sia lui, tralasciando di nascondersi dietro l’immagine estetizzante.

Ma non c’è solo Sorrentino. Jane Campion in  The power of the dog racconta un West al maschile dove il rude ma fragile Phil deve convivere con il più calmo fratello sposato ed un giovane cognato ingenuo, Peter.  È Phil, dalla sessualità irrisolta, colui che è più disunito  e debole anche se appare maschio selvatico e violento. È un uomo chiuso in sé stesso, timoroso di svelare i suoi veri sentimenti e chiuso pure alla possibilità di una qualche redenzione. Tra i vasti panorami del West selvaggio, Phil incrocia la cognata che avvilisce, il giovane immaturo e nasce una vicenda da dove non esce vincitore. I magnifici attori Benedict Cumberbach e Kristen Dunst esprimono con icasticità la debolezza al maschile e al femminile, dove sembra che solo il dolore possa dare una soluzione e far crescere il giovane e solitario Peter.

Una nuova vita sembrerebbe anche quella cercata dall’ex soldato torturatore a Guantanamo che gioca e vince ai Casinò americani in The card Counter di Paul Schrader. Non aspettiamoci una storia regolare e chiarissima, perché la trama è ricca di sussulti, di flashback, di tormento: dal ragazzo che vuole vendicare il padre militare suicida, al giocatore che si vuol redimersi e perdonare sé stesso e gli altri, incitando il giovane a farlo e prendendosi cura di lui. Film di immagini – volti soprattutto – si snoda senza troppa facilità e chiede allo spettatore una attenzione partecipe al racconto, storia in definiva della ricerca del perdono, anche se non da tutti accolta.

Ed è redenzione pure con The lost daughter (La figlia oscura) dell’esordiente alla regia  Maggie Gyllenhaal. La professoressa Leda in vacanza in Grecia osserva la vita di una giovane coppia, ripensa al proprio passato di madre inadatta e moglie traditrice, fa soffrire la coppia giovane rubando la bambola alla loro bambina: bambola che per lei è un surrogato della maternità abbandonata e delle figlie che ha lasciato per la carriera. Intreccio spinoso in cui una grande Olivia Colman dà anima alle sfaccettature psicologiche di una donna insoddisfatta, triste e dura, ma che pure può salvarsi e ritrovare gli affetti lasciati. La bellezza della natura è in forte contrasto con l’angoscia di Leda ma una porta aperta c’è sempre.

Grandi film, come si nota, in attesa del super reclamizzato Dune.

 

 

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