Chi vende le armi ai terroristi?

Qualche considerazione, giusto per riflettere un po’, sulla provocazione di papa Francesco, dopo la visita in Iraq: «Chi vende oggi le armi ai terroristi, che stanno facendo stragi in altre parti, pensiamo all’Africa per esempio? È una domanda a cui io vorrei che qualcuno rispondesse».
(AP Photo/Rich Pedroncelli, File)

Appena tornato dal viaggio in Iraq, papa Francesco nell’udienza generale del 10 marzo scorso in Vaticano ha espresso un interrogativo che si pongono in molti, ma che alcuni potenti preferiscono negare o nascondere invocando la ragion di stato.

«Il popolo iracheno – ha detto il Papa più o meno a braccio, come fa spesso – ha diritto a vivere in pace, ha diritto a ritrovare la dignità che gli appartiene. Le sue radici religiose e culturali sono millenarie: la Mesopotamia è culla di civiltà; Baghdad è stata nella storia una città di primaria importanza, che ha ospitato per secoli la biblioteca più ricca del mondo. E che cosa l’ha distrutta? La guerra. Sempre la guerra è il mostro che, col mutare delle epoche, si trasforma e continua a divorare l’umanità. Ma la risposta alla guerra non è un’altra guerra, la risposta alle armi non sono altre armi. E io mi sono domandato: chi vendeva le armi ai terroristi? Chi vende oggi le armi ai terroristi, che stanno facendo stragi in altre parti, pensiamo all’Africa per esempio? È una domanda a cui io vorrei che qualcuno rispondesse».

La risposta “diplomatica” a questo interrogativo inquietante è, con molta probabilità: nessuno Stato lo farebbe, se non in segreto e negando sdegnato ogni addebito. Oppure: trafficanti senza scrupoli, mercanti di morte. Ma, aldilà di imponderabili e indimostrabili complotti, è proprio così?

Sull’interrogativo sollevato da papa Francesco «non esiste una risposta univoca, ma alcune responsabilità sono note», afferma un interessante articolo a firma di Claudio Fontana apparso il 18 marzo sul periodico online della fondazione milanese Oasis (oasiscenter.eu).

L’articolo rimanda fra gli altri ad alcuni dati che inquadrano il tema della provenienza delle armi utilizzate da “entità non statali”, come sono per esempio i gruppi armati jihadisti. Secondo una stima di Conflict Armament Research (Car), un’organizzazione investigativa che collabora con l’Ue e vari Paesi, delle armi finite nelle mani dei terroristi, solo il 22% proverrebbe da consegne gestite o sponsorizzate da “entità statali” esterne; mentre il 42% sarebbe ottenuto per conquista in azioni di guerra; un ulteriore 27% deriverebbe da appropriazione di depositi statali e il 5% circa dal fallimento di qualche stato (per esempio la Libia nel 2011) o da dismissione di arsenali (come quelli di alcuni Paesi dell’Europa dell’Est). Detto in altri termini: la maggior parte (quasi l’80%) delle armi usate dai terroristi erano già presenti nel Paese o nella Regione. O comunque disponibili.

Ne derivano intuitivamente due considerazioni: la prima è che il Medio Oriente è talmente pieno di armi “legali” che per un’organizzazione terroristica il problema è solo quello di acquisirle (tramite conquista, furto, corruzione, connivenza, ecc.). E la seconda considerazione è che i fornitori di armi ai terroristi sono alla fine proprio i produttori di armi che ufficialmente le forniscono alle “entità statali” di una Regione, ma in seconda istanza, indirettamente, una parte di quelle armi finisce poi nelle mani dei terroristi, senza entrare nel merito se vengano sottratte o fornite.

Restano comunque quantitativi minori di armi che vengono procurate da trafficanti senza scrupoli, ma non si tratterebbe comunque delle forniture più consistenti. In buona sostanza, secondo questa valutazione, le armi dei terroristi sono quindi indirettamente fornite dalle aziende produttrici.

E dove sono queste aziende produttrici? Secondo i dati raccolti dall’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (Sipri), nella Top25 delle aziende produttrici di armi (mercato valutato in 361 miliardi di dollari nel 2019) ci sono 12 produttori statunitensi, 4 cinesi, 6 europei occidentali (2 inglesi, 1 italiano, 2 francesi, 1 transeuropeo), 2 russi e 1 mediorientale (new entry) degli Emirati Arabi Uniti. E queste sono solo le 25 aziende maggiori, certo non le uniche.

Va anche detto che il mercato mediorientale è il secondo al mondo (33% degli import globali) dopo quello asiatico, ma l’area asiatica è molto più ampia e per di più in decrescita negli ultimi 5 anni.

Spunti incompleti, magari discutibili. Giusto per riflettere un po’ sulla sollecitazione di papa Francesco.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons