Velth, l’ultimo etrusco

Tra Populonia e Piombino, sulle tracce dell’antico popolo che insegnò la civiltà a Roma. Vi proponiamo questa scoperta trasferendoci nel IV secolo d.C dando la parola ad un ideale abitante del tempo
La necropoli di San Cerbone

Sorge la Populonia medievale e quattrocentesca, dominata dalla rocca eretta dai signori di Piombino, su uno dei promontori che si affacciano sul golfo di Baratti, non lontano da Livorno. Di origini antichissime, unica città etrusca fondata presso il mare, conserva di quel periodo i resti delle mura, le necropoli e, là dove era localizzato il porto, un vero e proprio quartiere industriale. Fu infatti, insieme a Volterra, uno dei centri dell’Etruria più importanti per attività mineraria e industria metallurgica. Se si eccettua tuttavia la privata Collezione Gasparri, che conserva reperti provenienti dall’area della città e dai ritrovamenti effettuati nel tratto di mare antistante, non molto è visibile dell’arte e della cultura etrusche nell’attuale borgo.

Il grosso delle testimonianze di quel popolo, insieme ad altre che vanno dalla preistoria al periodo tardo-antico, si trova nella vicina Piombino, dove in un edificio storico facente parte dell’antica Cittadella ha sede il Museo archeologico del territorio di Populonia, il cui pezzo più prestigioso è rappresentato dall’Anfora di Baratti, un raro pezzo di argenteria del IV sec. d. C. rinvenuto nelle acque del golfo e meravigliosamente restaurato. Sono invece da segnalare, per quanto riguarda il periodo etrusco, i corredi di numerose tombe, fra cui la Tomba delle Oreficerie, quella del Bronzetto di Offerente e la Tomba 14 delle Grotte. Scopo del museo, presso il quale è attivo anche un centro di archeologia sperimentale, riguardante la lavorazione della ceramica e della pietra, è quello di illustrare la storia del territorio e dell’utilizzo delle sue risorse: in particolare quelle minerarie. Questa scorribanda nel mondo di un popolo che ancora molti si ostinano a qualificare “misterioso”, mi ha suggerito questa “fantasia” venuta di getto, in cui ho provato a dare la parola ad un antico etrusco. Al quale si perdonerà, spero, la sua “visione di parte”.

«Salve, o postero, chiunque tu sia. Chi ti parla è Velth l’etrusco, figlio di Laris, e se vuoi saperlo nacqui in faccia all’Elba fiammeggiante di fornaci, nell’industriosa Populonia. Anch’io soffersi ed amai come ogni altro mortale, felice di una numerosa progenie: ahimè, dei miei figli neppur uno mi sopravvive, invano mi affaticai per essi e nel commercio mi arrise la fortuna. Così vollero gli dèi. Ed ora spaesato in questo mondo di vivi, come uno dimenticato dalla morte, temo che il mio non sia altro che il vaneggiare d’un vecchio a cui meglio s’addice il silenzio.

«Sii perciò indulgente, ammesso che leggerai un giorno questo scritto affidato alla terra, sigillato in un oscuro sepolcro: è di chi prende commiato dalla luce del sole volgersi indietro e misurare pensoso, quasi parlando fra sé, il cammino percorso. Così, giunto all’estremo limite dell’esistenza, cerco di stringere in pugno – contro la vertigine che mi prende – l’identità mia e del mio popolo: essa vacilla come fiamma di lucerna stanca all’approssimarsi dell’aurora, sicché mi opprime l’angoscia che tutto con me finisca, quasi io, Velth, sia l’ultimo degli etruschi, un tempo felici e possenti. Di essi dunque ti dirò, come so e posso, prima che la fiamma si spenga, prima che l’oblio confonda ogni cosa.

«Lidii ci chiamano alcuni e nativi dell’Asia Minore; altri invece ci ritengono venuti dal brumoso Nord; altri ancora, originari del suolo italico fin dalle età più remote. Comunque sia, il popolo etrusco fu come il sorgere dell’aurora nel crepuscolo che avvolgeva la penisola, e il nostro progressivo espanderci tra le stirpi italiche come l’avanzare inarrestabile della civiltà. Non con guerre sanguinose di conquista, né con sottomissione e sfruttamento altrui: l’indole nostra è pacifica. Umbri e falisci, oschi e latini, come pure le popolazioni alpine, spontaneamente mutarono i loro rozzi costumi nei nostri, più evoluti, e da noi appresero a vivere in città, a leggere e scrivere.

«Strappammo campi alle paludi e per primi vi introducemmo la vite; suoli aridi, grazie a noi, divennero irrigui e dove passammo noi apparve un giardino. L’amavamo, la terra: e come poteva essere altrimenti? Da un solco, infatti, dicono che apparve ai mortali il di lei figlio, Tagete, nipote del sommo Tinia, rivelando una dottrina che ancora desta l’ammirazione dei popoli. E non solo i campi amavamo, ma i flutti e le distese dell’insidioso mare, dove, temuti e audaci marinai, aprimmo nuove vie a fiorenti commerci. A tutti è noto che dai tirreni, come ci chiamano i greci, prese nome quel mare che dalle Alpi si estende fino allo stretto di Messina.

«Penetrammo perfino nelle viscere dei monti e coi metalli strappati ad essi si accrebbe la nostra prosperità. Dalla piana padana sino in Campania, dalle terre celtiche sino alle città dei coloni greci, dovunque avresti visto l’affaccendarsi di un popolo amante della vita, dai costumi inconsueti fra gli italici. Per dirne una, presso di noi la donna fu sempre tenuta in alto pregio: liberamente usciva per strada, liberamente prendeva parte ai conviti accanto all’uomo, intervenendo perfino in discussioni politiche: novità inaudita, che suonò scandalo sia presso greci che latini.

«Roma era ancora nella mente degli dèi, ancora l’ignaro villano pascolava i buoi nelle paludi sottoposte ai sette colli, quando fioriva l’etrusco. Non Romolo, sappilo, la fondò, come ogni scolaretto inconsapevole ripete sui banchi di scuola, ma un etrusco signore di Tarquinia. E dopo di lui, etruschi furono gli altri due re: sotto di loro la città e la stirpe dei latini presero straordinario impulso. Così non fosse mai stato! I successori di coloro che trovammo in capanne di paglia dovevano rivelarsi a noi fatali.

«Veio etrusca uguagliava Atene quando l’Urbe era ancora un centro insignificante: finché questa, fattasi grande e forte, vibrò alla superba vicina il colpo mortale dopo cent’anni di estenuanti guerre. Sperimentammo, è vero, nella nostra storia, le orde selvagge dei celti, essi stessi fatali ai romani, i vascelli dei greci di Siracusa, nostra mortale nemica e causa della nostra rovina; ma nulla fu paragonabile all’odio di Roma.

«Se solo fossimo stati concordi! Avremmo fatto ancora in tempo a rintuzzarne le pretese. Ma troppo spiccato era l’individualismo delle nostre città, per quanto – riunite in leghe – rinnovassero patti ogni anno dinanzi al sacro altare di Voltumna; e troppo lontana da noi ogni volontà di potenza politica, interessati unicamente ad accrescere la nostra floridezza.

«Per quale altro motivo, se non per brama delle nostre ricchezze, per invidia del frutto delle nostre fatiche, Roma si rivelò con noi implacabile? Se essa è grande, non lo divenne certo a causa dell’operosità e del lavoro propri; la sua ascesa passò per il sangue dei popoli vinti, depredati, ridotti in schiavitù. Così fu inarrestabile il nostro declino, così un popolo di contadini-soldati soppiantò i figli dell’Etruria.

«Ho ancora negli occhi, come fossi stato io presente e non i miei padri, le rovine di Tarquinia, Chiusi, Perugia, Arezzo e Cortona, Vulci, Cere e Volsinii, cadute ad una ad una; e i tesori sottratti alle città etrusche sottomesse, ammassati nel tempio di Giove Capitolino, quel tempio che un re etrusco, Tarquinio il Superbo, eresse.

«Per te, o postero, perché tu sappia, vado rievocando queste cose, mentre lacrime sconvenienti ad un vecchio assuefatto ai mali mi rigano le guance avvizzite.

«Dopo averci piegati, non seppero tuttavia i romani fare a meno del nostro ingegno, e da noi vinti ottennero ciò che non seppero o vollero acquistarsi col vincolo dell’amicizia: architetti per edificare le loro città, artisti per adornare templi e dimore, sì che non esiste casa romana dove non compaia bronzo, vaso o suppellettile etrusca.

«Da noi appresero l’arte di scavare canali, gallerie, di scavalcare un fiume con agile arcata: in breve, le più audaci opere di idraulica e di ingegneria. Si circondarono dei nostri musici, ricorsero alla nostra arte medica; con zelo sorprendente poi, si affannarono a custodire le nostre venerande tradizioni religiose, consapevoli con ciò di salvare il fuoco spirituale che s’accese nella penisola italica, anzi la sua stessa anima.

«E mai ardirono interrogare i numi se non tramite i nostri aruspici. Siamo infatti familiari della divinità e di essa, meglio di ogni altro popolo, sappiamo riconoscere i segni benevoli e quelli ostili: tremendo dono, questo, fattoci dagli dèi, per il quale perfino la nostra fine ci è nota, ed anzi incombe: ché già da tempo calò il martello sui battenti del tempio di Northia a Volsinii, annunciando quel lugubre tonfo l’inizio del decimo “secolo” dopo il quale – così le nostre profezie – più nulla sarà del nome etrusco.

«Sì, dall’Etruria giunse ai romani la luce, non già dalla Grecia come ora van dicendo, essi che non ne conobbero l’arte se non per nostro tramite. Talvolta mi sono chiesto cosa sarebbe successo se i nostri due popoli avessero percorso concordi le vie di una pacifica convivenza. Avevamo bisogno gli uni degli altri: noi della loro intraprendenza, del loro vigore, della loro coesione; essi del nostro spirito, della nostra scienza. Ma gli dèi disposero diversamente.

«Ora basta, sono stanco: è tempo ch’io taccia. Già troppo oltre il limite ho osato, vecchio qual sono, affrontare argomenti gravi ed azzardare giudizi. Sento accanto Vanth, il mio genio, ventilarmi con le sue ali piumate: m’assista lui ora che m’incammino verso un futuro gravido di immortalità. Ecco la lucerna prossima a spegnersi, ecco già pronta nella ciotola l’offerta per il lungo viaggio.

«Parlare mi è stato di qualche conforto e faccio ritorno più sereno ai miei padri: vado a raggiungere la mia diletta Uinia, là nell’urna dove già la cingo con tenero abbraccio. Addio! Velth l’etrusco ti saluta. Non tralasciare di onorare col rispettoso ricordo il suo popolo: forse più di quanto non immagini di esso giungerà fino a te, di età in età, come polline fecondo portato dal vento».

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