Veglia alla parrocchia di Siem Reap
È gestita dai padri gesuiti, la parrocchia della cittadina alle porte di Angkor, la straordinaria città dei templi cambogiana. Attualmente ce n’è uno solo, un indonesiano. Ma fino a qualche mese fa erano in tre.
Stasera c’è una grande confusione nel compound della chiesa cattolica, con luminarie che brillano, un coro e un’orchestrina che cantano inni natalizi con un’intonazione assai originale, uomini e donne che si danno un gran daffare per preparare il brindisi di fine messa. La gente che s’avvicina alla grande sala di legno costruita su palafitte non è certo uniforme: ci sono i nativi cambogiani (circa 300 persone vi fanno parte a Siem Reap, 700 nella regione), gli immigrati vietnamiti (non pochi), gli occidentali residenti (qualcuno) e i turisti occasionali (anche qui non pochi). Ci sono pure famiglie occidentali che hanno adottato bambini cambogiani, e che perciò vengono qui per far rivedere ai piccoli la loro terra, e forse anche qualche parente, ora che vivono in Francia, in Italia, in Spagna. Non mancano ovviamente i poveri che fanno l’elemosina e qualche mutilato delle mine, che imparo a scorgere un po’ ovunque qui in Cambogia. Una bella fetta del popolo di Dio, composita e aperta. Vengo a sapere che nell’uditorio ci sono non pochi buddhisti…
La messa scorre tra gracchiamenti dei microfoni (l’amplificatore è ancora a valvole) e improvvise panne d’elettricità, mentre dall’esterno proviene un costante chiasso di bimbi che corrono e giocano. Ma anche nell’uditorio i piccoli non sono pochi, anche perché l’omelia in massima parte viene sostituita da una rappresentazione dei misteri sacri natalizi ad opera dei bambini della parrocchia. Commovente nella sua ingenuità, rigorosa nella sua rappresentazione storica, colorata nei suoi costumi, rumorosa nel suo svolgersi. Gesù è nato anche qui, in questa notte di Natale 2009, e la gente sembra proprio rinnovata negli sguardi e nei gesti. Forse un Natale così cosmopolita e ricco di suggerimenti globalizzati non mi era mai capitato di viverlo. Ma ci dovremo abituare a un cristianesimo in massima parte extraeuropeo.