Vedi Saigon e non muori, ma vivi
Tanti volti, tante storie, tante gioie e dolori che ti legano ad un posto ben preciso su questa terra. Per me quel posto è in Vietnam, a Saigon, o, come la chiamano ora, Ho Chi Minh city. Un minestrone di città, con dentro tutti e di tutto, con un clima non facile da sopportare: pioggia e sole che si alternano come in una foresta tropicale. Una città dove le vecchie costruzioni coloniali vivono insieme alle nuove, dove le Bentley e le Mercedes sfrecciano accanto a chi raccoglie spazzatura per 5 euro al giorno.
Una città che ho visitato la prima volta nel 1989, quando lavoravo come controllore di qualità in vecchie fabbriche governative. Era ancora il tempo della guerra tra Vietnam e Cambogia, e il coprifuoco iniziava alle ore 22.30. Nessuno lo osservava ed anch’io se era necessario andavo in giro di notte, finché una pattuglia di soldati ci fermò: ero con un amico prete, e volevano 100 dollari per lasciarci andare. Nel 1989, 100 dollari erano una cifra! Ci rilasciarono dopo che gli avevamo mollato 4 dollari, ed i soldati erano felici.
Ritornare oggi a Saigon, dopo la pandemia, è stata un’esperienza coinvolgente, quasi un terremoto. Ritrovare la mia vecchia moto, rivedere gli amici e le amiche di anni, i monaci e le monache buddhiste, gustare di nuovo quei gusti tipici, è stato un tuffo dell’anima, che pensavo avesse dimenticato. Poverella… la mia anima: aveva presente tutto, ogni cosa e persona.
Nella vita l’amore ed il dolore non si dimenticano mai: si nascondono o si rannicchiano in luoghi nascosti del cuore. Dal 13 al 27 Maggio quei luoghi si sono completamente riaperti dentro di me. È bastata una gita in montagna, nella giungla, il lavoro in ufficio come corrispondente, girare la città in moto e ritrovare i poveri: è stato ed è come se fossi caduto in una vasca di benzina, e Qualcuno ci avesse buttato un accendino acceso dentro.
Di tutti gli incontri, quelli che ancora oggi non mi si tolgono dagli occhi, sono i volti dei bambini disabili, ammalati di nervi dopo la pandemia. Mai ci si abitua al dolore, soprattutto innocente: e quegli occhi hanno devastato la mia anima più di una bomba al fosforo. Mi diceva una maestra amica che i casi di bambini poveri ammalati di nervi sono triplicati dopo il lockdown. Stare rinchiusi in 8 persone, per 2 mesi, in una stanza 3×3, con un bagno minuscolo, poco da mangiare, ha avuto sulla mente di tanta gente effetti devastanti, e su molti bambini irreversibili.
Alla scuola Pho Cap per bambini di strada, 160 alunni, circa il 30% sono ammalati: provengono soprattutto da famiglie fragili o comunque povere. Avrei voluto dare la mia sanità mentale per quella bambina che mi stava davanti: di una bellezza che Giotto non saprebbe riprodurre e nessun fotografo per quanto bravo saprebbe catturare. Era lì, sorridente, parlava a fatica e mi guardava.
Per la prima volta nella mia vita, ho pregato quel Dio che mi sembra di non scoprire mai abbastanza, di prendersi la mia vita in cambio della salute di quella piccola. Ho visto tanto dolore, ma non ci si abitua mai: è sempre nuovo, sconvolgente. Il Vietnam, poi, è sempre insolito rispetto ad altri posti, ti mette in crisi, con la sua gente, le sue strade, con l’invincibile fatica di vivere e di riuscire a sfamare i tuoi familiari. La vita è ancora molto dura qui, per troppa gente. E questo non ti lascia indifferente.
Riprendendo l’aero per tornare a Bangkok, dopo 15 giorni di Vietnam, mi sono accorto che ho ricevuto o ritrovato un grande dono: il dono di un cuore, il dono delle lacrime, come dice papa Francesco. Non riesco a capire perché continuo a piangere per la gente. Mi succede a Mae Sot con i profughi karen, a Chiang Rai con i profughi Thai Yay, mi accade a Yangon e a Saigon: ovunque incontro il dolore degli innocenti. E quei volti mi rimangono dentro. Dovunque vada, li porto dentro di me.
E mentre il mondo continua nella sua insensata guerra, con i cacciabombardieri che svolazzano nei cieli asiatici come altrove, di pace si continua solo a parlare, continuando a vendere armi per la guerra. I giusti innocenti hanno bisogno di affetto, di tenerezza, di vicinanza, di calore. Come i bambini disabili di Saigon, ma anche come quella numerosa famiglia musulmana proveniente dal Medio Oriente che ho trovato all’aeroporto. Ho ceduto loro il mio taxi, scambiandolo con il loro, troppo piccolo per 6 persone. Il mondo ha bisogno d’amore.
E io, tu, tutti noi, possiamo fare la differenza, in ogni momento. Possiamo disinnescare la guerra in famiglia oppure iniziarne una nuova. Ma questo mi ha lascato il Vietnam: sono vivo, posso ancora amare. E parafrasando un noto modo di dire napoletano: “Vedi Saigon e non muori, ma vivi”.
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