Vecchioni: a colloquio col Professore

Non senza sorpresa (sua, e di tutti noi), l’ultimo album di Roberto Vecchioni, Il lanciatore di coltelli (Emi), s’è arrampicato fino ai vertici delle asfittiche classifiche di vendita nostrane. Un segnale confortante per la nostra canzone d’autore, e con esso la conferma che non è detto che prodotti dichiaratamente poco commerciali non riescano a reggere il confronto col mercato. A patto che siano concepiti con un minimo di attenzione alla forma, ispirazione e sincerità d’intenti. “È un successo che non mi aspettavo proprio. All’inizio pensavo fosse dovuto allo zoccolo duro degli amici- fans che si era riversato nei negozi appena uscito l’album, e invece ha continuato a vendere. Una bellissima soddisfazione”. E tutto questo a dispetto di tematiche nient’affatto semplici. Come la Morte, per esempio: che avevi già affrontato ne “Lo stregone e il giocatore”, una tua canzone del ’79. “Allora la morte mi faceva paura e in quel caso volevo esprimere il mio disperato attaccamento alla vita. Oggi tutto questo ha lasciato il posto a un senso del mio vissuto molto positivo, e ciò mi porta a considerarla poco più di una formalità. L’unico dispiacere è che resta comunque un’esperienza che uno deve affrontare da solo, senza poterla condividere con chi si ama. Inquesto senso “Viola d’inverno” è una canzone d’amore molto più che di morte”. “Ma che razza di Dio c’è nel cielo”, invece, sembrerebbe la domanda di un perfetto agnostico…” E invece no, perché io sono credente. Quella domanda sarebbe forse più correttemente espressa con “ma che razza di Dio abbiamo messo nel cielo”. In quella canzone parlo di un Dio che mi pare frutto di un’invenzione tutta e solo umana: severo, pronto a punirci, un padre-padrone ecco. Ciò che non capisco è questo dare a Dio la colpa di tutti i mali del mondo. Se Dio ci ha creato, sicuramente ci ha fatto per essere buoni, capaci di volere il bene: il senso di questa canzone è quello di riportare Dio dall’asetticità del Cielo al cuore di ciascuno di noi, senza strumentalizzarlo per salvaguardare un sistema sociale o una cultura”. Quanto è cambiato il tuo mestiere di cantautore dopo l’11 settembre? “Direi che non è cambiato. Perché questo senso di buio e di insicurezza ce l’avevo anche prima. A differenza di molti che vivevano nell’illusione di ciò che ci raccontavano i media occidentali, io ho sempre pensato che il mondo fosse parecchio diverso. E se c’è un dato positivo da cogliere in quella tragedia è che questa ha intensificato l’attenzione verso i movimenti di protesta, come quelli dei no-global, che mi sono simpatici e che condivido, quando la protesta sa trovare il modo giusto di esprimersi. Ciò non significa che anch’io, come tutti, non sia stato toccato da questa tragedia; e anche a me come a tutti ha fatto “bene” e male nello stesso momento. Ora però mi pare che la vita si stia ricompattando, nel bene come nel male”. Quindi continuerai a scrivere canzoni finché vivrai… “Mah, per me scrivere non è mai stata un’operazione strategica o commerciale, piuttosto ha avuto ed ha innanzi tutto una funzione catarchica, serve a buttar fuori quel che mi si agita dentro. Non a caso ho scelto l’immagine del lanciatore di coltelli… Ho buttato fuori cose che hanno a che fare col sociale, con il politico, con il presente”. Una bella metafora che però può avere anche altre valenze… “Infatti. Il lanciatore di coltelli è uno che coi propri arnesi disegna il contorno, indica la sagoma dei problemi senza eliminarli. La soluzione del resto non spetta agli artisti o agli intellettuali, loro hanno solo il compito di testimoniare, e di lanciare l’allarme se è il caso”. Il fatto di essere padre e insegnante continua a costringerti a vivere a strettissimo contatto coi giovani. Dalla tua prospettiva, come valuti le nuove generazioni, sei ottimista o pessimista? “Sono ottimista, anche se ho molta paura per loro. L’ottimismo mi viene dal fatto che sento che l’umanità non riuscirà mai a distruggersi da sola: grazie a Dio, ha troppi anticorpi vigili e vivi per consentire una catastrofe irreversibile. Per nove ragazzi addormentati ce ne sarà sempre uno sveglio che ne attirerà altri. La paura è nel verificare la pazzesca confusione della loro protesta; come nel ’68, non c’è unità d’intenti né di gruppo. I giovani di oggi hanno troppe cose, troppi stimoli, troppa materia, tutte cose che impoveriscono lo spirito”. In conclusione: hai un augurio da farti, o da fare? Per me, nulla: sono contento di quello che ho, sia di materiale che di spirituale. Ho invece una speranza per il mondo, per la gente: che finalmente si impari a capire gli altri, le altre culture. Perché non si può avere né pace né amore finché non si entra nella cultura dell’altro”.

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