Vecchi e giovani registi
Ci sono due film in uscita, uno il primo dicembre di Clint Eastwood e l’altro il 7 di Xavier Dolan. Il primo, in odore di Oscar, il secondo vincitore del Grand Prix quest’anno a Cannes. Il primo di un americano di 86 anni, l’altro di un canadese di 27 anni.
Raccontano storie diverse, ma entrambi hanno un gran mano. E dal confronto, secondo noi, escono entrambi vincitori. Perché il talento non ha età, se poi è ben usato.
Eastwood ha alle spalle una carriera strepitosa. Attore di western italiani, poi capace di ruoli diversissimi, da Fuga da Alcatraz a L’ispettore Callaghan, premi a decine, quattro Oscar, sei candidature agli Oscar, e così via.
L’ultimo film, American Sniper è la storia di un soldato in missione straniera, una vicenda vera, come quasi tutte quelle raccontate dal regista nei suoi ultimi film. Stile asciutto, linguaggio diretto, attori credibili, messaggio chiaro.
Stavolta in Sully parla di Sully Sullemberger, il capitano che il 15 gennaio 2009 ha effettuato un ammaraggio d’emergenza col suo aereo nelle acque gelide del fiume Hudson, salvando i 155 passeggeri a bordo. Esaltato come un eroe dalla gente e dai media, viene però indagato sulla sua decisione: rischia di perdere la stima universale.
Non è una cosa da nulla: chi ha perduto a causa della cattiveria umana la fiducia degli altri sa cosa può passare nell’animo di un uomo. Ed è appunto ciò che prova Sully- un Tom Hanks somigliante e intenso -, domandosi se ha fatto bene a decidere l’ammaraggio, rivivendo quei momenti, soffrendo di incubi notturni, temendo di perdere il coraggio che la famiglia tenta di infondergli.
Il merito del film è di usare un linguaggio piano, pur nel dramma, di pulizia interpretativa, senza ammettere alcun pathos.
Il regista indaga l’animo di Sully, di un uomo tutto d’un pezzo che crede a valori come l’onestà, i l dovere, la solidarietà, la famiglia. Il meglio dell’homo americanus, eroe solitario – ma qui per fortuna ha una buona “spalla” nel primo ufficiale – dal comportamento limpido. È l’uomo di Eastwood, che tuttavia ha ansie, dubbi, paure, rischia e alla fine vince.
Eastwood tuttavia non insegue un mito glorioso. Sully, che è ancora vivo e in pensione, è un uomo normale, sincero.
Questa è l’umanità che piace ad Eastwood, l’eroismo inaspettato degli uomini che però lo vivono ogni giorno, senza che nessuno se ne accorga. Pulizia, bel mestiere, ottimo cast, moderato ottimismo.
Altro mondo è invece quello di Xavier Nolan, già cinque film a carico, oltre a recitazioni, doppiaggio, corti.
Ora, in “È’ solo la fine del mondo”, racconta di Louis, giovane scrittore di successo che vive la sua vita lontano da casa,ma vi ritorna per dare una notizia importante. Il rientro non è facile. Rancori, diffidenze, nevrosi ma anche amore, seppur espresso in forme poco simpatiche. Riuscirà a dire il suo “segreto”?
Tratto da una pièce teatrale, usa un linguaggio forte, ma anche lunghi interminabili silenzi, momenti commossi, accuse durissime. L’amore in famiglia sa essere anche un martirio crudele. E per rivelarsi ed essere libero ha bisogno di tanto dolore incomunicato, di volti e di sguardi intensi e senza parole come quelli che- nei bellissimi primi piani- il regista dedica a Louis (Gaspar Ulliel) alla madre (Nathalie Baye) al brusco fratello (Vincent Cassel), alla ribelle sorella (Léa Seydoux) all’ingenua cognata ( Marion Cotillard).
Tutto si svolge in un giorno, dentro e fuori casa, durante il pranzo, tra la luce poetica degli interni e degli esterni, tra un viaggio in macchina dei due fratelli – uno scontro – e l’abbraccio silenzioso tra la madre e il figlio, che dice una vita.
Un film emotivo ma misurato, drammatico senza eccessi, curatissimo nei dettagli e con un cast grandioso.
È la poesia della verità e del rimpianto, di Louis che riesce a versare una lacrima e a capire quale sia la vera libertà: sarà quella di saper soffrire e amare. Il mondo, gli affetti passano. Cosa rimarrà? Si dovrà partire, e per dove?
Da non perdere per la freschezza e la verità di un regista ormai maturo che sa parlare del nostro tempo.