Varanasi naturalmente dialogo

Ci si leva alle cinque, per assistere al sorgere del sole sui ghat, le scalinate che scendono da templi e palazzi lungo il percorso cittadino del fiume. Nella fitta nebbia che si leva dal Gange (la Ganga si dice qui, perché il fiume è femminile per gli indù), percorro chilometri di mistero. Nel buio pesto, solo qualche fioca luce rischiara l’atmosfera lattiginosa, interrotta da rumori che qua e là si materializzano: una scimmia che avanza a zigzag, un vecchio che abbozza qualche movimento di ginnastica, una donna che spazza i gradini dallo sterco, un gruppo di uomini accovacciati per terra che fanno scaldare la cuccuma del tè, il regolare sbattere di tessuti sulle pietre a opera dei muscolosi lavandai” E così inizio a intuire la sacralità di queste rive, da sempre luogo di culto e meditazione, devozione e ascesi: le stesse medesime gesta da migliaia d’anni, di che rabbrividire, per noi occidentali sempre più avvezzi all’usa e getta. Ma sono anche luoghi di materialismo e rumoreggiamento, spensieratezza e godimento. L’induismo non cessa di sconcertare e affascinare. Il giovane bramino Sulla scalinata dipinta di bianco e arancio dell’Assi Ghat, attorno a un tè bevuto in una tazza di coccio monouso, incontro Anand Mishra. Studioso di induismo, ha ereditato dal padre la passione per il dialogo interreligioso, di cui è stato un piccologrande profeta. Continua a far uscire la rivista che il genitore aveva ideato e diretto. Vuole lasciare l’ingegneria informatica per dedicarsi alla sua passione, il dialogo. Anand è convinto della teoria della coincidenza degli opposti, che risale al tempo dei Veda. La stessa Varanasi ne sarebbe una testimonianza: si trova infatti tutto e il contrario di tutto, in un luogo “dove la notte passa al giorno e il giorno alla notte senza discontinuità “. Secondo lui, bisogna cercare la fede più profonda in tutte le credenze: una faccenda di cuore prima ancora che di testa. Bisogna altresì, per dialogare, far emergere la vera natura religiosa delle persone, ed essere “attaccati” alla propria fede per poter ascoltare la religione altrui. Ma il dialogo rischia di rimanere un’illusione se si rimane nel semplice confronto: “Importante è l’amore per Dio e per le persone, non tanto la tua bellezza, la tua casta, la tua intelligenza “. Templi moschee chiese Affitto una barca. Passo dinanzi a templi, moschee e chiese assediati dai pellegrini. Si vedono bramini sotto i loro ombrelloni, pronti a vaticinare dietro ricompensa. Ci sono pure i mendicanti che elemosinano un qualsiasi obolo di qualsiasi natura, i bambinelli che vendono candele votive, i commercianti che si trovano attorno a tutti i santuari del mondo, i bagnanti presi dalla emozione della purificazione, gli occidentali in mal d’occidente” Oltre il tempio pendente, le narici vengono solleticate da un intenso odore. Ecco il burning ghat, quello delle cremazioni, davanti al quale le ceneri dei cadaveri vengono sparse nel Gange, sperando così in una reincarnazione rapida e adeguata. Mi sposto verso il centro, al Maitri Bavhan, la società dell’armonia. È il nome di un centro interreligioso ispirato da un gesuita, Raj Mohan. Padre Sudil è franco: il dialogo interreligioso non è facile, nonostante sia una necessità. Qui si comprende bene come le difficoltà di evangelizzazione si accompagnino con inedite sperimentazioni di dialogo. L’agenda della Maitri Bavhan è molto densa, e si indirizza soprattutto ai cattolici, per i quali vengono organizzati corsi di conoscenza delle altre religioni. Ma sono numerosi anche gli incontri tra intellettuali di diverse religioni. Il seguace di Kabir “L’India è un paese dove i poeti precedono i profeti”. Un detto che stamattina prende un volto preciso: un sadhu, un uomo che rinuncia, si presenta alla porta. Come sempre. Con un monocorde sitar, che suona con la mano destra, e una specie di cembalo a pinza, che manovra invece con la sinistra, intona melodie antichissime, sulle quali canta le composizioni di Kabir. È infatti uno dei seguaci della via del poeta che nel XVI secolo, nato fuori dal matrimonio da una donna indù, fu abbandonato. Venne raccolto da una coppia di musulmani che lo allevò secondo l’Islam. Divenuto adulto, e conosciuta la sua origine, si consacrò alla poesia e alla meditazione. Componeva opere che aleggiavano tra l’ironia e la più sublime lirica, superando le contraddizioni di Islam e induismo, predicando una religione di verità e amore, non solo formale. È stato certamente un antesignano del dialogo interreligioso. È stato ispiratore del sikhismo. Il professor Rana P.B. Singh All’imbrunire assisto ai “vespri” indù, le invocazioni alla “Madre Ganga”. Con la luce di torce e ceri, si invoca la clemenza della dea del fiume. Suggestivo è il rito che vede i fedeli deporre la loro lampada votiva (un batuffolo di cera su un lettuccio di fiori, in una vaschetta vegetale) nell’acqua, per ingraziarsi la dea. Un rito che fa meditare sui “semi del Verbo”, cioè i “semi della Verità”, presenti nelle diverse religioni, soprattutto osservando la fede di questa gente che, nonostante i turisti, non esita a mostrare tutta la propria sincera devozione. L’indomani incontro il professor Rana B. Singh, emerito studioso d’induismo, della sua geografia e delle sue architetture. Ha redatto la bellezza di 32 volumi. La sua è una conversazione erudita, continuamente giocata tra misticismo e studio comparato delle religioni, costellata da commoventi racconti di una fede sincera. Oggi il prof. Singh ci porta a visitare uno tra i templi più antichi della regione. Il tempio di Kardamesvara che, nei secoli tra il XII e il XVII, ha dovuto fare i conti con la distruzione da parte dei musulmani di quasi tutte le tracce della tradizione indù. Ad attenderci troviamo un gruppo insolito di pellegrini, tutti uomini che si muovono in motociclette pavesate con bandierine arancione. Ci guardano con aria truce. Il prof. Singh – è una fortuna che sia con noi – riconosce subito il gruppo, della corrente fondamentalista indù, che rigetta ogni forma di colonizzazione occidentale. Come niente fosse comincia la sua dettagliata descrizione dei bassorilievi della grande torre. Entriamo poi nel santuario, che contiene uno dei tre lingam (il simbolo di Shiva) più antichi della regione. Attorniato da una corona di lucignoli in una vasca che occupa quasi interamente l’angusto locale, viene onorato con fiori, latte, acqua e semi particolari. Per entrare dobbiamo fendere la ressa, in uno spettacolo misterioso e impressionante. È solo a questo punto che il prof. Singh si avvicina ai fondamentalisti fattisi minacciosi. E spiega loro il significato del santuario, rimproverandoli di conoscerlo meno dei suoi amici stranieri. Gli indù si calmano, ascoltano, pongono domande. E ci offrono di condividere con noi la loro colazione, riso ai piselli con spezie varie, servito su piatti vegetali. Matridham Ashram Cambio di scena. In un’ora di risciò, arrivo al Matridham Ashram, verso la campagna. Appena entrato, centinaia e centinaia di biciclette ben allineate suggeriscono la presenza di una folla. Seguo una voce dalle tonalità acute, amplificata da apparecchiature antidiluviane. Poi la sorpresa: sotto un capannone metallico, migliaia di persone sono sedute sulla paglia, e ripetono frase dopo frase, seguendo l’intonazione e la melodia appena accennata, quanto dal palco va dicendo un uomo dalla fluente barba canuta, vestito di bianco e arancio. È gente semplice, quella che ascolta, contadini in maggioranza analfabeti. Mentre tale cerimonia prosegue sempre uguale e sempre diversa, benedetta da un immenso e barbuto Gesù su fondo azzurro che campeggia sul palco, faccio un breve giro nell’ashram, verdissimo, centrato su un edificio a forma di fiore di loto che si rivela una cappella dove il Santissimo è esposto all’adorazione. Torno al palco giusto in tempo per osservare l’officiante attorniato da decine di persone che gli confidano le loro pene e le loro malattie. L’uomo barbuto appoggia la mano sulle fronti e invoca la benedizione di Dio. Risponde al nome di padre Ishwarnand, prete della Indian Missionary Society. Il suo conversare è dolce e pacato, materno e paterno al contempo. Mi spiega che il 99 per cento della gente radunata è indù, di tutte le caste. Chiede che le si insegni a pregare. Non vuole il battesimo, quanto di pregare quel Gesù che amano. Ed è quello che si fa al Matridham Ashram, l’ashram della “casa della madre”, dove le conversioni sono pochissime, anche perché di questi tempi sono pericolose. Padre Ishwarnand racconta di alcuni miracoli; quelli fisici appaiono più normali; meno quelli di alcune donne che, analfabete, presa in mano la Bibbia si sono ritrovate capaci di leggere e di scrivere. Più tardi, alla cattedrale cattolica un manipolo di fedeli assiste alla messa domenicale: venti persone. Che contrasto con l’ashram! Il vescovo locale, mons. Patrick De Souza, uomo saggio ed equilibrato, incoraggia i tentativi di avvicinamento alla popolazione indù: “Le nostre chiese sono quasi vuote – mi spiega -, dopo decenni in cui abbiamo cercato di battezzare il più possibile. Ora la gente indù viene da noi per pregare, perché dice di amare Gesù. Forse con questo il Signore vuole indicarci una strada da seguire”. Verso l’aeroporto Verso l’aeroporto mi diverto a guardare dal finestrino una festa di colori, presenze umane, animali e vegetali fantasmagorica. A rallentare l’andatura c’è la mucca sacra che allatta il vitellino; il funerale di un notabile musulmano, il cui feretro è guidato da uomini barbuti accigliati; un carretto trainato a mano carico all’inverosimile di canne di bambù; un maestoso carro di sacchi di grano tirato da un bue rachitico; i lavori in corso per riempire una buca che “occupa”, si fa per dire, una ventina di operai; un risciò a motore che cessa di esistere a cavallo tra le due carreggiate, sputando l’anima nera; il mercato del latte che si allarga come un estuario sulla strada principale; un bambino che fa slalom tra le auto e i risciò per recuperare il suo aquilone” Questa è Varanasi, la città degli opposti, dove si trova tutto. E dove si dialoga. LA CITTÀ SANTA PER ECCELLENZA Gli inglesi l’avevano chiamata Benares, storpiando il nome originario di Varanasi, alla confluenza tra due fiumi, il Varana e l’Asi. È per eccellenza la città santa degli indù, soprattutto a partire dal IV secolo dopo Cristo, dedicata al dio Shiva, sulla riva sinistra del Gange, “la Ganga” per gli indù, nome della dea omonima. Nella sua storia si incrociano popoli e religioni, essendo alla frontiera tra l’India del Nord, dell’Est e del Sud, mentre il Nepal non è lontano. Così non è una città santa solo per gli indù: Buddha, ad esempio, pronunciò qui, a Sarnath, il suo primo discorso nel V secolo prima di Cristo. Qui si ergono moschee antichissime, eredità del lungo regno Moghul (dal XV al XVII secolo), e anche i cristiani indiani hanno i loro santuari nella città. Sono presenti altresì minoranze di altre religioni, tra cui anche una piccola comunità ebraica. Tra le personalità vissute a Varanasi, vanno ricordati i poeti Tulsi Das (1532-1623) e Kabir (1440-1513). TRA SINCRETISMO E DIALOGO L’induismo è la religione che presenta forse la maggiore complessità di approccio nel variegato panorama del dialogo interreligioso. Infatti, sia pure fondato su testi sacri cui si riferisce la veridicità dell’essere indù, permette una grande libertà sia di interpretazione del testo che della sua applicazione nel quotidiano e, pur autoannoverandosi fra le religioni monoteiste, una miriade di divinità spesso inducono a pensare ad una forma di politeismo. Il fedele inoltre, cosciente dell’incapacità di rivolgersi direttamente all’Assoluto, avverte il bisogno di statue ed immagini, che gli permettano di parlare con Dio e di sentirne la presenza. È tuttavia sogno di ogni indù arrivare al giorno in cui il suo rapporto con l’Assoluto sarà tale da non dover più essere mediato da segni esterni. È questa religione che ha giocato ed ancora gioca un ruolo determinante nella struttura sociale dell’India, sopravvissuta a secoli di evoluzioni storico-politiche. Se in Occidente gli ambiti del sacro e del profano si sono distinti e progressivamente separati, per l’indù la vita resta unitaria. L’India è capace di mettere insieme opposti inconciliabili per qualsiasi occidentale. Non esiste poi un’autorità che funga da punto di riferimento e rappresenti ufficialmente il credo indù, sia a livello gerarchico che di pensiero. Ogni fedele ha un suo guru, vero mediatore verso l’Assoluto.Tutti in definitiva possono essere indù, ma questo poco importa perché le religioni non sono che fiumi che portano allo stesso Oceano. E qui sta la tipicità dell’induismo: il ritenere che le religioni sono strade diverse verso l’unico Dio.Tutto questo porta ad una conclusione: non si dialoga con l’induismo, ma piuttosto con gli indù, ognuno dei quali è un induismo. E qui sta un altra difficoltà: gli indù sono 800 milioni! Ravindra Chheda

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