Vanoi, si scalda il fronte del no alla diga

Sempre più comitati di cittadini, amministrazioni locali e la stessa Provincia Autonoma di Trento si oppongono al progetto voluto dalla Regione Veneto - che però ora fa marcia indietro -, che prevede un invaso in territorio trentino, in una valle caratterizzata da alto rischio idrogeologico. Un no accompagnato dalla proposta di alternative
Il torrente Vanoi - foto da Wikipedia di Syrio - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=106581581

Si “scalda” sempre più la questione della diga del Vanoi; che, per quanto relativamente poco nota al di fuori dei territori interessati, è arrivata fino alla Commissione europea. Parliamo di una diga che dovrebbe sorgere al confine tra Veneto e Provincia di Trento, appunto sul torrente Vanoi, ma con un invaso che si svilupperebbe interamente in territorio trentino.

La storia è lunga, ma solo in tempi recenti è assurta agli onori delle cronache. Già dagli anni Venti del Novecento, e ancor di più in seguito all’alluvione del 1966 che colpì in maniera disastrosa l’asta del Brenta, si iniziò a parlare di un invaso a monte, che fosse in grado di bloccare le piene: si arrivò così ad un primo progetto all’inizio degli anni Settanta, che però venne approvato dalla Regione Veneto solo nel 1989. Progetto da allora rimasto nel cassetto e più volte ripreso in mano e modificato secondo diverse ipotesi – tra cui diverse collocazioni per la diga, ora interamente in territorio veneto, ora viceversa in territorio trentino; e che ha assunto più concretezza da quando il progetto è rientrato in un bando del ministero delle Politiche Agricole sul Fondo di sviluppo e coesione 2014-2020.

Nel 2022, in seguito all’emergenza idrica in Regione, il presidente del Veneto Luca Zaia ha inviato un piano di interventi urgenti al ministero delle Infrastrutture inserendo la «realizzazione della diga di Vanoi (uso plurimo, acquedottistico, irriguo, idroelettrico) a Lamon per un importo di 150.000.000 euro». Il 27 gennaio 2023 sulla Gazzetta ufficiale è stato pubblicato l’esito della relativa gara d’appalto: l’ente aggiudicatario il Consorzio di Bonifica Brenta mentre i vincitori risultano essere il raggruppamento temporaneo di imprese Lombardi Ingegneria srl (Capogruppo mandataria), Technital spa e Lombardi sa Ingegneri Consulenti.

È infatti il Consorzio Bonifica Brenta, insieme alla Regione Veneto, il principale “sponsor” dell’infrastruttura; mentre sull’altro fronte si trovano, oltre a svariate entità riconducibili al mondo ambientalista – da Legambiente a partiti come Europa Verde, ma anche esponenti del Pd e di altri partiti d’opposizione – e alle popolazioni locali, la stessa Provincia di Trento, anch’essa a guida leghista come il Veneto, configurando anche una diatriba politica interna al Carroccio oltre che ambientale.

Perché no, dunque? Innanzitutto per il principale motivo che ha sinora fatto rimandare l’avvio dei lavori, ossia il rischio idrogeologico: la valle in questione, la Val Cortella, è infatti classificata a livello di rischio P4, il più elevato, per il pericolo di frane. Non è un caso che, in una zona in cui tanti ricordano ancora il Vajont, il pensiero sia corso a quella tragedia. Contrarietà è stata espressa per questo motivo anche dagli esperti dell’Università di Padova, tra cui il docente emerito di idraulica ed idrodinamica prof. D’Alpaos, conoscitore diretto di quel territorio.

Poi perché parliamo di una zona ancora in buona parte “vergine”, che presenta di conseguenza delicati equilibri ambientali che verrebbero stravolti da un’opera di questo tipo.

Ancora, perché esistono – affermano i contrari – alternative più economiche e meno impattanti per risolvere i due principali problemi che si vorrebbero affrontare con la diga, ossia il contenimento delle piene da un lato e viceversa l’approvvigionamento idrico per i periodi di secca: su tutte le aree forestali di infiltrazione (che potremmo descrivere, semplificando al massimo, come zone alberate in cui viene fatta scorrere l’acqua in apposite canalette nei periodi di abbondanza, perché questa possa poi infiltrarsi nel terreno e ricaricare le falde). Secondo i calcoli dei proponenti, servirebbero 6 milioni di euro (contro i 150, stima giudicata da molti eccessivamente ottimistica, per la costruzione della diga) per realizzare aree di infiltrazioni sufficienti a coprire il fabbisogno (un centinaio di ettari, per circa 100 milioni di metri cubi di acqua, contro i 25 che la diga potrebbe tenere). Da non dimenticare poi, aggiungono, la manutenzione degli invasi già esistenti, che arrivano ormai a contenere anche solo un terzo dell’acqua prevista a causa del mancato sghiaiamento.

E da ultimo perché, sostengono popolazioni locali, partiti di opposizione e Provincia autonoma di Trento, il processo si è svolto nel mancato rispetto non solo di alcune normative europee, ma anche della più elementare dialettica democratica. Da diverse associazioni e amministrazioni locali sono arrivate denunce di mancato coinvolgimento del territorio nelle decisioni, che sarebbero state semplicemente imposte dall’amministrazione Zaia e dal Consorzio Brenta; l’amministrazione trentina guidata da Maurizio Fugatti ha inviato lo scorso luglio formale diffida ai soggetti promotori della diga, dicendosi pronta a passare alle vie legali, per tutelare le competenze della Provincia sul proprio territorio; l’europarlamentare Cristina Guarda (Europa Verde) ha formalizzato una denuncia al Commissario europeo competente per segnalare la violazione di ben sei norme e di un regolamento Ue.

Intanto fervono le assemblee e gli incontri sul territorio – le ultime due il 7 e 9 settembre scorsi a Lamon e a Canal San Bovo – in cui le popolazioni locali ribadiscono il no sia alla diga che ai metodi con cui il progetto viene portato avanti. È prevista inoltre una manifestazione per il 5 ottobre a Lamon, uno dei Comuni del territorio interessato. C’è anche una petizione lanciata dal Comitato per la difesa del torrente Vanoi, dal titolo “No alla diga, sì alle alternative”, che ha al momento raccolto 6000 firme.

Come se non bastasse, a complicare una situazione già complicata è anche arrivata dal ministero dell’Agricoltura una lettera alla Provincia di Belluno in cui si specifica che ci sono sì i soldi stanziati nell’ambito del Pnrr, che però non sono sufficienti a realizzare la diga, ma non altri fondi in arrivo da Roma; e Luca Zaia stesso, in una lettera di osservazioni al Consorzio Brenta al termine dell’ultima riunione di Giunta, ha scritto che «Parliamo di una zona ad elevata fragilità geologica. Finché non dovesse essere fugato anche l’ultimo, microscopico dubbio, la nostra è una posizione di assoluta chiusura». Una frase che appare quindi come un preludio ad un passo indietro, per quanto non ancora ufficializzato.

La questione è dunque più che mai aperta.

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