Van Gogh vagabondo dell’Assoluto
Non si finirà mai, credo, di parlare di van Gogh. Un fenomeno ormai di massa come svelano le code di gente ad ogni rassegna che lo riguardi. Non può essere diversamente. Van Gogh è un vagabondo dell’Assoluto, un ricercatore terribilmente inquieto della verità, un eterno insoddisfatto. Un piccolo uomo olandese che scopre tardi la sua vocazione, compie un cammino lungo e rapido allo stesso tempo con una fretta ed una profondità sconcertanti e seducenti.
Nella rassegna romana si parte da lontano, dalla vita dei contadini e dei minatori dei Paesi Bassi, ritratti a tinte terrose, affannate: la durezza del lavoro. Se ci si ferma a guardare la litografia del 1885 I Mangiatori di patate, si scopre una umanità stanca, sgraziata, ma vera. Pare un convito religioso in cui il silenzio grava assoluto, senza parole. Le figure umane parlano: sono una ”presenza”.
Questo aspetto tipico di Vincent, di rendere tutto – cose, persone, natura – una “presenza” palpitante che “glorifica sé stessa”, è affascinante. Non che egli ci arrivi subito. Dovrà scendere a Parigi per scoprire la forza del colore, frequentare gli Impressionisti per coglierne la valenza poetica, ma sarà libero: anche da loro. Troverà in Paul Gauguin un amico con cui condividere il sogno di una amicizia artistica-spirituale. Non funzionerà: l’affetto possessivo di Vincent disorienterà Paul che cercherà l’Assoluto sulle spiagge di Haiti nella natura “vergine”, e Vincent reagirà tagliandosi un orecchio. Troppo sensibile, tutto “troppo”.
Vincent è un radicale che soffre terribilmente. Il dolore sembra la sua vocazione specifica ed è forse un motivo per cui l’umanità di oggi lo sente istintivamente così vicino, attuale.
Il viaggio del pittore risulta in questo modo un pellegrinaggio vitale attraverso le varie vicende biografiche – il manicomio, l’isolamento, il tentato suicidio, gli amori – che egli esprime in una sua Bibbia di Giobbe fondata su un binomio: dolore-luce.
Nella tela del Seminatore (1888) il sole si irradia dentro un campo infinito tra scaglie di colore dolente; nel Covone sotto un cielo nuvoloso splende il giallo della vita tra pennellate nervose. Guardandole con amore, senza fretta, potremmo cogliere in queste opere quello che Vincent coglieva: il respiro della natura, della vita stessa. Anche violento, anche drammatico e pure”mistico”. Di un misticismo tutto suo, certamente, ma autentico.
Nella rassegna romana mancano opere celebri come I Girasoli o i Cieli notturni, eppure basta uno sguardo sul drammatico Vecchio disperato del maggio 1890 per capire nell’uomo con la testa fra le mani l’angoscia di una sofferenza inesprimibile, come certe grida di un Grunewald o di un Picasso che egli rivive o anticipa.
Ma van Gogh non si rassegna. Trova una possibile risposta nella natura che “prende” e “possiede” con occhio umano e spirituale al contempo. Non carnale come in Gauguin, lirica come in Monet, metafisica come in Cézanne. Nella tela Tronchi d’albero nell’erba (fine aprile 1890, prima della morte) Vincent si sorprende, si incanta in fili bianchi e viola sugli steli, le erbe, le cortecce: punte di pennello guizzanti, vivissime. Luce.
Vincent ce lo dice nell’Autoritratto a fine mostra (1887) con gli occhi azzurri, belli e irrequieti. La vita non muore mai. Sorprende sempre.
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Van Gogh Capolavori dal Museo Kroller- Muller. Roma, Palazzo Bonaparte. Fin al 26. 3 (catalogo Skira)
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