Van Gogh. L’uomo e la terra
La retrospettiva su Van Gogh ospitata presso Palazzo Reale a Milano dal 18 ottobre 2014 all’8 marzo 2015 affida ad un percorso di 47 opere, il rapporto ancestrale tra l’artista olandese e la natura, tra l’uomo e le leggi della terra. Il celebre architetto Kengo Kuma ha ricercato, per l’allestimento, una materia, la juta, che ne evocasse l’odore, la ruvidezza, trasformandola in uno spazio avvolgente che ricordasse le linee morbide della pittura di Van Gogh e la semplicità contadina.
Vincent vive profondi conflitti interiori nel tormento, nella precarietà, nella solitudine. Unico legame atavico, eterno, assoluto è quello con la terra e le sue stagioni, le fatiche del lavoro nei campi, i pasti frugali. Con Dostoevskij, si pone dalla parte del contadino cui l’industria toglie il bene primario per eccellenza, la dignità, l’ethos, la sacralità del lavoro.
Le lettere inviate al fratello Theo sono il fil rouge del percorso espositivo, illustrano i contenuti, la poetica, la rustica purezza e nobiltà che Van Gogh osserva nella vita dei campi. Vincent vuole che la natura e i motivi rurali parlino da sé, intende conservarne l’onesta ingenuità.
Molto colpito da L’ Angelus della sera di Millet, per la ricchezza, la poesia, la bellezza, ne definisce l'autore come «colui che ha dato ai contadini un’anima e che ha riscattato il lavoro dei campi innalzandolo a suprema grandezza». La ricerca di ciò che è vero e solido, l’arte e la morale, passano attraverso questa forma di pittura contadina che sfocia nel 1885 nel capolavoro del suo periodo olandese, I mangiatori di patate, ottenuto dopo attenti studi preparatori dei molti aspetti della figura umana e delle espressioni.
Vincent non si cura della tecnica. Vuole catturare l’essenza: una famiglia di contadini intenta a mangiare patate alla debole luce di un piccolo lume costituisce il soggetto del dipinto. Vincent ama i contadini e si sente gravato dal peso dello stesso tipo di sofferenze fatte di stenti, pasti frugali, miserie. Il piatto di patate è simbolo del tipico piatto dei poveri ottenuto con un onesto e duro lavoro.
La realtà è resa dunque più attraverso l’interiorità spirituale di Vincent che attraverso la scelta di una tecnica cromatica. Van Gogh predilige il monocolore, sui volti, sugli abiti, sugli oggetti, unici colori in grado le emozioni forti, la compassione e la commozione. Lo scopo non è dunque che i critici lo vedano “bello” o “pregevole” quanto piuttosto “buono” e “santo”, nel senso dell’onesto, dell’eroico, del sacro.
Il critico Isaacson ha definito Vincent un «lottatore solitario nella notte buia», tanto quanto il contadino che lotta ogni giorno, dall’alba all’“Angelus”, per arrivare a sera ed aver ricavato un pugno di patate da condividere in cinque. Solitudine e condivisione sono i dilemmi anche del suo essere uomo.