Vagabondo tra le isole

In una nuova traduzione (con alcuni testi inediti) ricompare “Omoo”, romanzo giovanile di Herman Melville dagli scenari polinesiani

La fama di Herman Melville, uno dei grandi della letteratura statunitense e mondiale, è legata giustamente a Moby Dick o La balena bianca, poema simbolico dell’uomo in cerca del senso di sé, che lotta per attingere – lui finito – l’infinito. Ma quanti sanno che questo capolavoro sarebbe stato riconosciuto tale solo oltre vent’anni dopo la scomparsa dello scrittore (1891)? Al suo apparire nel 1851, infatti, il romanzo era stato piuttosto maltrattato dalla critica, che aveva confermato a Melville la nomea di “oscuro” affibbiatagli dopo l’insuccesso di Mardi, riuscito a molti incomprensibile a motivo della sua scrittura eccessivamente e stucchevolmente allegorica. Neanche i successivi tentativi di tornare a temi più convenzionali della vita di bordo – i romanzi a sfondo autobiografico Redburn e Giacca bianca – erano valsi a rinnovare la popolarità iniziale dello scrittore newyorkese, risultando invece importanti, specie il secondo, come banco di prova per generare più tardi Moby Dick. Dopo il quale nessun’altra opera si sarebbe mantenuta a quella altezza, ritrovandosi gli unici sprazzi di vera arte nei racconti Bartleby lo scrivano del 1853, Benito Cereno del 1855 e Billy Budd, quest’ultimo capolavoro tardivo apparso postumo.

E dire che l’esordio di Melville come narratore era stato dei più felici: i giovanili romanzi Taipi (1846) e Omoo (1847), ispirati dalle sue esperienze di marinaio nelle polinesiane Isole Marchesi, avevano incontrato i favori sia del pubblico che della critica, rientrando nel genere, allora molto popolare, della narrativa di viaggio. In entrambi egli nutre ancora entusiasmo e fede in un mondo libero, felice e innocente, prima del fatale ripiegamento su di sé dell’inoltrata età matura.

In Taipi Melville racconta la sua diserzione dalla baleniera Acushnet e il periodo di beata prigionia trascorso tra i cannibali Taipi di Nukuheva (oggi Nuku Hiva), la maggiore delle Isole Marchesi. Qui ciò che importa non è tanto la trama, piuttosto debole, quanto la riflessione divertita e bonaria dell’autore sull’impatto tra lo stato di natura dei nativi e la pretesa civilizzatrice dei colonizzatori. In Omoo, che ne è il seguito, l’io narrante lascia Nukuheva a bordo della baleniera australiana Julia. Ma la malattia del capitano condiziona fortemente la navigazione, al punto che l’equipaggio, stremato e bisognoso di una sosta a terra, tenta un ammutinamento, che però abortisce. Con altri marinai, il protagonista finisce ancora prigioniero, stavolta nell’isola di Tahiti. Tornato libero, intraprende insieme al medico di bordo un viaggio nell’isola e in un’isola vicina: occasione per descrivere personaggi, luoghi, usi e costumi prima di trovare un nuovo imbarco, costretto tuttavia a separarsi dal suo amico. Anche in Omoo (termine polinesiano che significa “vagabondo tra le isole”) Melville riprende, ma in toni più accesi, la sua critica ai metodi di colonizzazione occidentali in Polinesia, che hanno completamente stravolto i costumi dei tahitiani; critica estesa anche al ruolo e all’operato dei missionari cristiani tra gli indigeni, la cui conversione è da lui giudicata puramente formale.

Con queste due avventurose cronache, più che romanzi (gli unici veri suoi successi in vita, insieme a Giacca bianca), Melville iniziava a farsi le ossa come narratore. Vi si trova in embrione l’idea della nave quale microcosmo e rappresentazione simbolica del mondo, che avrà sviluppo appunto in Giacca bianca e piena maturazione in Moby Dick con le vicende del baleniere Ismaele e del capitano Ahab.

A parte questo capolavoro, non sono frequenti le ristampe di altri titoli melvilliani: è dunque da apprezzare la pubblicazione, per i tipi delle Edizioni Clichy, di un testo come Omoo: «In assoluto – afferma Fabrizio Bigatti, autore della nuova traduzione – uno dei migliori esempi del Melville meno conosciuto, quello satirico e umoristico».

Ulteriore elemento di novità è l’aggiunta, in appendice, di alcuni documenti inediti, come il breve diario tenuto da Melville nel corso del viaggio intrapreso nel 1860 col fratello Thomas a bordo del clipper Meteor (a Thomas, fra l’altro, Herman aveva dedicato Redburn e da lui era stato convinto ad imbarcarsi sulla Acushnet, la baleniera con la quale aveva solcato i mari del Sud). Per Bigatti, questo giornale di bordo è «un piccolo gioiello di riflessioni esistenziali, stavolta più venate da un’amarezza che – a quarantun anni – ha già pervaso Melville e lo condurrà nel lungo crepuscolo della propria esperienza di vita e di scrittore. L’oceano qui non è più salvifico e, a quasi dieci anni di distanza da Ismaele, anche Melville è semplicemente un “sopravvissuto” che torna a terra per poter raccontare. Non è più il tempo della vela e il mondo sta cambiando troppo rapidamente. Melville da lì in poi scriverà quasi solo poesia, affidando i propri romanzi all’assai più infido mare della posterità».

 

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