Vaccino “per tutti”: un ponte da costruire
Nei scorsi giorni mi è capitato di portare mia sorella a fare il vaccino: la sua condizione di disabilità intellettiva la rende “categoria fragile” e per questo candidata alla somministrazione già in questo periodo. Arriviamo al polo allestito per l’occasione con tanta gente disposta ordinatamente in fila, a debita distanza ad aspettare il proprio turno con i fogli di anamnesi alla mano. Attendiamo qualche minuto anche noi prima di essere chiamati dai volontari che si occupano della sicurezza e poco dopo entriamo nello stand che ci viene indicato.
Ma la giovane paziente non è troppo dell’idea di farsi pungere da una siringa, è poco collaborativa e la macchina di produzione in serie di soggetti immuni rischia di incepparsi, provocando ritardi sulla tabella di marcia. Alla fine, dopo un’ora di “lotta” per convincerla, con la solita sensazione degli occhi addosso della gente che vede movimentarsi l’ attesa post vaccino, siamo approdati in un piccolo stanzino dove vengono preparate le dosi e finalmente, un po’ “a tradimento”, siamo riuscite a fare il vaccino.
“Siamo”, perché per evitare che contraesse i muscoli se contenuta, abbiamo usato una nuova tecnica: la mia mano ha tenuto la siringa mentre sopra quella di mia sorella accompagnava il gesto. In effetti, come darle torto? Sono alle prime armi e, con i tirocini pre-laurea completati online in quest’ultimo anno, meglio assicurarsi di persona! Alla fine ero molto contenta di avercela fatta, non ci speravo quasi più di riuscire a vaccinarla, non solo per la protezione contro la malattia, ma perché presto sarà un passepartout: e per queste persone con bisogni speciali avere la possibilità di uscire e riprendere quelle attività che erano la loro routine quotidiana è fondamentale.
Poco per volta la gioia e la tensione sono scemate e si è fatta largo in me una strana sensazione. A noi in fondo era andata bene perché io, in quanto operatore sanitario, avevo potuto somministrarglielo. Ma ho pensato a quei casi, a quelle famiglie, in cui nessuno può sostituirsi all’operatore per fare quell’atto medico e mi ha lasciato una profonda tristezza d’animo, quella che spesso ci coglie accompagnando mia sorella negli incontri con l’ambito sanitario in tutti i suoi aspetti, sia anche solo una semplice detartrasi. Tante volte abbiamo dovuto osservare che la burocrazia può prendere il sopravvento sull’attenzione al singolo e a chi ha esigenze più particolari o tempi più lunghi per la propria condizione. Anche in una realtà come quella italiana, dove il vaccino c’è (o ci sarà) “per tutti”, non sempre questo si traduce con le stesse possibilità di somministrarlo “a tutti”.
Solo quando riusciremo a portare con noi, come sanità, queste persone e le loro esigenze già nella fase di ideazione dei percorsi di cura (tutti, anche quelli che non riguardano direttamente la loro condizione di disabilità intellettiva), allora si realizzerà davvero quel ponte che permette di poter dare “a tutti” quello che il nostro Stato mette a disposizione “per tutti”.
Come sempre però l’unica condizione per impedire a questa sensazione di tristezza di prendere il sopravvento è pensare per un attimo a quello che stanno provando altri in situazioni simili: così ho pensato di offrimi come volontaria per quelle persone con disabilità non tanto fisica, per cui spesso il vaccino viene eseguito a casa, ma intellettiva, e che in quanto in grado di muoversi hanno un percorso uguale agli altri per sottoporsi alla dose, ma spesso necessiterebbero di tempi e spazi completamente diversi, non contemplati nel ritmo “normale” della catena di montaggio dei centri di vaccinazione. Spero che la mia offerta venga accolta, anche se i casi fossero pochi, anche se si impiegasse mezzo pomeriggio per ognuno: sarebbe un piccolo passo, che non cambierebbe le percentuali che quotidianamente sentiamo ai telegiornali, ma renderebbe quel “per tutti” sempre più vero.