USMI, migranti con i migranti

Le religiose sono sempre state in prima linea accanto ai migranti. Etra Luana Modica, mscs, missionaria scalabriniana, responsabile dell’Ufficio Mobilità Etnica presso l’USMI, illustra il loro lavoro e le sfide che devono affrontare attualmente a livello civile, culturale ed ecclesiale, che ruotano essenzialmente attorno al tema dei rapporti.
Scalabriniane

Da quando esiste l’apostolato delle religiose italiane fra gli emigranti e come si è evoluto?
 
Dalla fine dell’Ottocento le religiose hanno seguito le prime ondate migratorie italiane verso le Americhe. Ci sono state quattro grandi figure femminili: Francesca Saverio Cabrini (fondatrice delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù), Clelia Merloni (fondatrice delle Apostole del Sacro Cuore Gesù), Assunta Marchetti (confondatrice delle Religiose Missionarie di San Carlo – Scalabriniane) e Paulinha Visintainer (fondatrice delle Piccole Sorelle dell’Immacolata Concezione). Tra le figure maschili ci sono state invece Don Bosco, Scalabrini, Pallotti, ma anche vari gesuiti.
Inizialmente si trattava di un servizio di assistenza sociale, di accompagnamento pastorale, nella dedicazione ai deboli e ai bisognosi, agli ammalati e agli emarginati, anche in presenza di gravi discriminazioni sociali e di diverse difficoltà, ostilità da parte del clero, della Chiesa locale. La donna, infatti, è molto intraprendente, occupa spazi col suo innato senso di accoglienza, la sua intuizione, la sua profonda religiosità. Diceva l’apostolo dei migranti, mons. Giovanni Battista Scalabrini: “L’opera dei sacerdoti non sarebbe compiuta senza la vostra. Vi sono cose alle quali solo voi potete riuscire. Dio ha infuso nel cuore della donna un’attrattiva tutta particolare, per la quale esercita un potere arcano sulle menti e sui cuori”. Poi l’emigrazione si è orientata verso l’Europa e qui abbiamo testimonianze meravigliose, con le religiose che andavano dove nessuno osava entrare.
A partire dagli anni Sessanta il concetto di missione comincia ad assumere un significato diverso: continua sicuramente a prevalere l’ottica delle risposte ad emergenze, o comunque un aiuto alle necessità immediate in emigrazione. Ci si comincia a chiedere, però, quale sia il ruolo della religiosa all’interno della vita della missione stessa, non riducendosi ad essere una semplice, seppur importante, esecutrice delle decisioni del missionario. Le religiose superano il complesso di inferiorità e partecipano responsabilmente alla vita della missione.
Oggi ci troviamo davanti a un cambiamento di direzione: da religiose italiane per gli italiani all’estero a religiose di altra nazionalità che si cerca di inserire sempre più a servizio dei loro connazionali qui in Italia. È una grande risorsa tuttora non valorizzata, perché sono presenti ancora resistenze da parte di congregazioni e di alcune superiore che non si rendono conto quanto queste consorelle possono aiutarci a vivere la cattolicità dentro le nostre comunità. A noi come cristiani – prima che come religiosi – servono le comunità internazionali per arrivare a vivere in comunione, che è una cosa diversa dalle convivenze culturali.
 
Che tipo di migranti sono assistiti?
 
Praticamente tutti: dalla persona non alfabetizzata e non professionalizzata al laureato. Le religiose si dedicano molto ai bambini negli asili. Le donne rappresentano una percentuale alta fra i migranti e le religiose sono al loro servizio. In questo si è verificato un passaggio: queste donne non devono essere soltanto colf, secondo il cliché abituale. Si cerca di toglierle dall’anonimato per renderle protagoniste.
Le religiose assistono tutti i gruppi nazionali di provenienza dei migranti, senza distinzioni di credo. Questo per diverse congregazioni, tra cui anche la mia, resta una importante questione. Generalmente non c’è la barriera della religione. Le religiose, magari più dei sacerdoti, osano di più nel testimoniare il Cristo, senza paura anche di nominarlo.
 
Quali i problemi principali dei migranti?
 
Sono i classici. C’è un discorso di integrazione non ancora completato, ci sono fatti di discriminazione, di razzismo. Sul piano pratico viene prima di tutto il problema del lavoro e, come conseguenza, della casa. E poi il problema dei ricongiungimenti familiari, che è il centrale, perché se si ha la famiglia, questa dà garanzia al momento di affittare la casa, e quant’altro. Poi c’è il problema della lingua e dei permessi di soggiorno con la lentezza della burocrazia. I migranti si scontrano con l’ignoranza, frutto di superficialità. Accompagnando dei migranti negli uffici, posso testimoniare che ne sapevano di più dell’operatore, citavano leggi e articoli del Testo unico sull’immigrazione.
In un capitolo a parte c’è l’accoglienza nella Chiesa, che nomino quasi con vergogna, perché abbiamo ancora molte resistenze. È stata fatta una ricerca nella diocesi di Bergamo su come i consigli pastorali percepivano l’integrazione degli emigrati nella comunità e si è evidenziata una forte resistenza. La pastorale migratoria non è presente fra i migranti per tenerli nell’isolamento e nella chiusura fra loro, in cui vivono già a livello di società, ma siamo fra i migranti per l’edificazione della Chiesa stessa.
Noi spingiamo la Chiesa a essere se stessa, a vivere fino in fondo il battesimo. Per questo occorre staccarsi dalla convinzione che l’altro e il diverso rappresentino un pericolo per noi e la nostra identità, un turbamento per la nostra tradizione di fede; si esige il ripensamento della fede e la capacità di cogliere il migrante non come destinatario, ma interlocutore nella fede. Io penso che i migranti siano cristiani responsabili per la crescita della Chiesa in cui vivono.
È urgente sviluppare una visione di fede sulla presenza delle migrazioni in mezzo a noi come opportunità di autocritica in vista della chiamata universale del battesimo, per vivere concretamente la cattolicità, superando il limite insito anche nella vicenda migratoria e trasformandola in evento di salvezza.
 
Quali sono le principali difficoltà e vantaggi del rapporto interculturale?
 
L’antropologia culturale sostiene come esista una originaria apertura e malleabilità nelle culture, che favorisce l’accoglienza e l’integrazione di elementi nuovi quando queste si incontrano, come avviene nel caso delle migrazioni. Questa capacità, intrinseca alle culture, è un vantaggio per e nel rapporto interculturale: perché nell’incontro le culture si trasformano e integrano elementi nuovi, che poi vanno esplicitati. Ma in generale manca la mediazione, che è una delle difficoltà. Non ci sono persone che aiutino a far dialogare i nodi dell’interculturalità. Questa, però, è una funzione essenziale che la Chiesa è chiamata a svolgere.
La transizione sociale e culturale dell’immigrato è molto complessa e il suo essere migrante non costituisce un problema contingente e transitorio – per nessuna società d’arrivo – ma un problema strutturale; non un problema sociale da affrontarsi con aggiustamenti congiunturali, ma un problema di società che obbliga l’intero sistema a cambiare. Di ciò non c’è sufficiente coscienza, anzi!
Un altro vantaggio è che il migrante si scopre “portatore”, perché l’altro glielo fa sapere. Sono portatori di un bagaglio ricchissimo, che diventa però anche una difficoltà, perché non hanno un equo spazio per esprimere la loro diversità. Quello che originariamente potrebbe essere un incontro interculturale, in un orizzonte aperto e universale, progressivamente può diventare una violenza, spesso subdola, che frantuma lo strato socio-culturale dell’appartenenza originaria dei migranti.
In tal caso si creano fenomeni di massificazione o di frantumazione umana e sociale, causati da logiche consumistiche e semplicistiche in cui il primato va al merito, al guadagno, alla concorrenza. Ne risultano omologazione o alienazione, sia a livello individuale che dei gruppi etnici trapiantati. E – pare strano – spesso si assiste contemporaneamente all’assolutizzazione delle singole identità.
 
Mi dia qualche esempio significativo del lavoro in comunione delle religiose fra i migranti.
 
Soprattutto con queste ultime ondate di profughi ci sono esperienze molto belle di tipo intercongregazionale, per esempio nei centri di detenzione, che costituiscono un segno di comunione pratica.
Altri esempi: abbiamo un’esperienza di intercongregazionalità in Afganistan, a Kabul, con un progetto di accoglienza per ragazzi: tre religiose di tre congregazioni diverse. A Ponte Galeria a Roma ci sono 15 religiose di 15 congregazioni diverse, che al sabato incontrano le donne, fanno catechesi, ascolto, orientamento ecc. Le religiose hanno più esperienze concrete che le congregazioni maschili. Nel nostro piccolo Centro migranti qui a Roma siamo di quattro congregazioni che lavorano insieme.
 
Qual è il coinvolgimento delle congregazioni e istituti come istituzioni?
 
Chi si coinvolge c’è con tutta se stessa; chi non c’è, non c’è. Speriamo che alcune congregazioni si coinvolgano, che venga toccata la loro sensibilità, perché innumerevoli congregazioni sono state fondate per dare risposte a problemi sociali. Speriamo che si riapproprino del loro carisma e lo attualizzino nel mondo della migrazione.
Le religiose straniere presenti nelle nostre comunità possono aiutarci come bussole per i processi di adattamento e di integrazione dei migranti della loro stessa lingua e cultura; possono aiutarci, per esempio, ad imparare i modi di salutare, le distanze nella conversazione, il concetto di privacy, come convivere col clima emotivo dell’altro, il modo di vivere la fede, il modo di celebrarla.
Nelle nostre congregazioni invece (nella mia, che è per gli emigranti) ci preoccupiamo che non abbiamo religiose italiane. Dico: “Benedite Dio!”, noi abbiamo bisogno di missionari che vengano dal mondo delle migrazioni, perché chi più di loro può dire: “Io l’ho sentito sulla mia pelle e quindi io sono con te e per te, in te”.
Siamo ancora al punto che si usa chiamare le religiose di altri paesi “le religiose di fuori”. Per non parlare dei fatti concreti in cui sono tenute ai margini. Si usa fra noi lo stesso linguaggio che si sente in strada: l’invasione degli immigrati, l’invasione dei religiosi e delle religiose stranieri. E diamo loro una formazione italiana.
Tu puoi garantire un carisma se ti assicuri che è passato in quei codici culturali di cui queste persone sono portatrici. Finché non fai dire alla sorella congolese come gli elementi della tua spiritualità sono stati tradotti nei suoi codici culturali o quali elementi culturali congolesi appartengono al tuo carisma, finché tu non fai questa coniugazione, è inutile che ti preoccupi che si perde e non si tramanda il carisma. Perché tu nella formazione non dai gli strumenti adatti.
 
Qual è lo spirito con cui le religiose operano?
 
Curano le relazioni e i rapporti. È l’aspetto principale. Si è passati da rapporti di forza del tipo: “Ci siamo, abbiamo soldi, siamo riconosciute”, alla forza dei rapporti. Le congregazioni, più che all’apertura di strutture, hanno puntato sui rapporti. In passato il missionario costruiva la chiesa, la casa. Le religiose avevano due stanzette, davano testimonianza. Attraverso i rapporti le religiose riscattavano la dignità del migrante. Questo stile sussiste ancora oggi: un rapporto nella povertà e essenzialità. Povertà di strutture materiali, ma ricchezza evangelica, che fa sentire di più l’urgenza di una spiritualità, della testimonianza di Dio, di dare quello di più grande che ho. Dire al diverso: “Potresti essere per me una minaccia, ma sei invece l’occasione per farmi prendere più coscienza di quello che Dio mi ha dato e te l’annuncio”.
Le nostre relazioni dovrebbero essere impregnate sempre più di spiritualità: sarà importante guardare ad Abramo, nostro padre nella fede perché migrante; ad Abramo a Mamre, che ospita inaspettatamente; dobbiamo scontrarci con gli uomini di Babele, che non comunicano più, e dalla Pentecoste dobbiamo imparare che la comunicazione è di nuovo possibile.
 
Come è il rapporto con la Chiesa locale?
 
Con i laici c’è un rapporto molto bello, aperto, alla pari, di confronto, di sostegno fraterno e di incoraggiamento vicendevole. Le nostre opere vanno avanti col volontariato dei laici. Magari c’è una religiosa che coordina e i volontari cooperano. Molte volte sono il cuore delle opere – oltre a essere naturalmente le mani -, lo fanno per passione. Noi abbiamo da imparare dalla loro gratuità.
Rispetto alla Chiesa locale, dove ci sono esperienze belle, diamo lode a Dio, dove non ci sono, diamo ugualmente… lode a Dio (ride), perché ci ricordano che Gesù ha promesso il centuplo e le persecuzioni. In Italia, dove abbiamo tutto e troppo, ci si difende, chiudendosi nel quadrato. Non va dimenticato anche che c’è ancora una mentalità troppo maschilista nella Chiesa (o troppo femminista, a volte).
 
E con la società civile?
 
C’è molta schiettezza. A volte ci sono conflitti aperti con le istituzioni; le religiose non le mandano a dire, perché difendono il diritto della persona. Altre volte ci sono alleanze bellissime. Soprattutto nel caso delle ragazze madri: su questo ci sono alcuni municipi che si sciolgono, anche perché c’è di mezzo il ricupero delle donne di strada. Dove si riesce a entrare, spesso le religiose hanno in mano le istituzioni. Lo Stato, abituato al disinteresse, quando invece vede l’interesse, rimane edificato e dà in mano il potere, non solo economico e di possibilità, ma soprattutto di politica, di cultura, di idee.
La presenza nelle carceri, negli ospedali… sono tutti campi di presenza delle religiose, perché la donna è globale, ha un’accoglienza totale dell’essere umano.
 

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