Uscire dalle chiese

Attenzione al territorio, formazione umana controcorrente, un rinnovato annuncio, dialogo con tutti nella chiarezza della propria identità. Ne parla l’arcivescovo di Pisa Giovanni Paolo Benotto, nel palazzo arcivescovile del Cinquecento a pochi metri da piazza del Duomo
Giovanni Paolo Benotto

Perché Pisa avverte meno la crisi rispetto ad altre città italiane?
«Pisa è una realtà complessa che sente meno la crisi perché ruota in maniera accentuata attorno ai poli universitari, la Normale e Sant’Anna, al polo San Cataldo della ricerca del Cnr, alle migliaia di giovani, 47 mila iscritti, più che a Firenze. Altro polo importante è l’ospedale Santa Chiara di Cisanello: sono quasi 5 mila le persone che lavorano nel policlinico. Senza dimenticare i servizi come l’aeroporto. Nessuno ne parla, ma c’è un abbassamento occupazionale che fa poco rumore: ai precari dell’ospedale non vengono rinnovati i contratti, all’università i docenti sono diminuiti di un migliaio».

Nel rapporto annuale di “ICity rate” che monitora 103 capoluoghi di provincia, Pisa risulta al secondo posto nazionale per dimensione economica, la precede solo Milano. Si crea, però, uno stacco tra chi vive nell’eccellenza economica e chi perde il lavoro?
«I dati su Pisa, ricevuti dai centri di ascolto Caritas sul territorio, ci dicono che le povertà sono legate a gruppi di stranieri immigrati e di italiani che si trovano in difficoltà. Spesso le povertà sono provocate e accompagnate dallo sfasciamento delle famiglie, soprattutto gli uomini non hanno più la capacità di mantenersi. Altro dato che fa saltare tutti gli equilibri, anche quello familiare, è la perdita del lavoro. I due problemi sono interdipendenti. Il numero di persone che si rivolgono ai nostri centri di ascolto è andato sempre crescendo con costanza e senza picchi. L’impennata, invece, è sulla richiesta di beni indispensabili per la vita: dai generi alimentari al vestiario. Per questo abbiamo appena aperto un “emporio della solidarietà” anche per razionalizzare e controllare meglio gli aiuti perché c’è chi fa il “giro delle sette chiese” e si rivende ciò che gli viene donato. La proposta è stata nostra, ma vari soggetti istituzionali – Fondazione Pisa, Comune, Asl, realtà associative di area cattolica – sono state coinvolte e l’hanno appoggiata. Di fatto, per le normative vigenti, abbiamo dovuto aprire un supermercato».

Che necessità avverte per la città dal punto di vista culturale?
«Il rischio è che i poli di eccellenze volino sempre più in alto, ma non siano capaci di trainare tutto il resto che rischia un abbassamento di quota. Alcune facoltà universitarie, per esempio, forniscono le competenze necessarie per entrare nel mondo del lavoro, ma non tutte. I laureati della Normale trovano tutti lavoro, ma su 10 uno solo in Italia, il resto tutti all’estero. Mio nipote stesso, laureato in ingegneria chimica, lavora 15 giorni a Pisa e 2 mesi in Qatar. Culturalmente si riduce lo spazio per il cammino di vita che è la famiglia. Cos’è la famiglia, un accidente del mondo del lavoro o la base della vita civile? È la persona che sta al centro o l’individuo? Purtroppo le relazioni sono condizionate da fini economici, produttivi e non dalla pienezza di una vita di relazioni. Le eccellenze stesse rischiano di diventare forme di individualismo chiuse su se stesse».

La chiesa pisana com’è presente sul territorio?
«Nel mondo ospedaliero è sorta una delle prime cappellaniecon la presenza non solo di un cappellano, ma anche di un diacono permanente, una suora, i laici, ministri straordinari della comunione, i volontari e i laici. È una realtà ormai consolidata e molto apprezzata dalle strutture stesse ospedaliere. Posso dire che in 5 anni che sono a Pisa ho visitato tutti i reparti in un ambiente che prima sembrava impenetrabile. Si è così creata una rete di relazioni che ha permesso di aprire, su richiesta delle strutture ospedaliere, un centro di ascolto per i malati di oncologia. È presente un medico, uno psicologo, un sacerdote a disposizione dei parenti e dei pazienti in cui si cerca di far cogliere che un’esperienza di questo genere si può vivere come un’opportunità di crescita della persona in cui l’aspetto spirituale è fondamentale e richiesto».

Altra frontiera è il mondo universitario?
«Nel mondo della cultura il centro San Frediano è un punto di riferimento per gli studenti universitari. La messa in cattedrale per l’inaugurazione dell’anno accademico era strapiena di giovani anche nella navate laterali, con tantissime matricole. Dopo, nel cortile, si è mangiata la pastasciutta. Vuol dire che c’è una ricerca di spiritualità e di relazioni sia a livello orizzontale che verticale. A San Frediano c’è la presenza importante di don Claudio e delle suore apostoline e alla fine dell'estate prossima arriveranno anche i gesuiti. Si realizza così un desiderio di sant’Ignazio, ne parlava in tre sue lettere, che voleva la presenza dei gesuiti a Pisa oltre che a Bologna e Parigi. In maniera impensabile la provvidenza ha fatto sì che possa essere possibile».

Cosa serve alla città dal punto di vista spirituale?
«Serve un rinnovato annuncio e una presenza evangelizzante. Dove si fanno proposte di evangelizzazione si vedono anche le risposte. Alcune iniziative, come “Il volto della notte”, proposta da giovani a giovani nei luoghi dove si incontrano la sera in pieno centro, funzionano. Quanti giovani chiedono di pregare e di confessarsi. È un lavoro mirato verso giovani che sono al margine rispetto alla vita della chiesa. Bisogna mettersi in movimento e uscire dalle chiese».

In città ci sono anche varie iniziative per il dialogo cristiano‒islamico come base della convivenza civile…
«Il dialogo è fondamentale perché se non ci si parla e, soprattutto, non ci si ascolta, nemmeno ci si conosce e non si può collaborare. Tutto ciò che favorisce il dialogo è da portare avanti. Sul piano religioso ci sono mondi abbastanza definiti e sconosciuti. Serve la conoscenza nel rispetto che è la cifra fondamentale perché il dialogo abbia senso. Alcune sono presenze limitate destinate a crescere per l’immigrazione. È un mondo diverso da quello che conoscevamo fino a pochi anni orsono. In passato il problema era il dialogo tra ideologie diverse e questo resta ancora abbastanza difficile. Sul piano del dialogo ha significato molto l’opera del servizio “cultura e università” animato da don Severino Dianich e don Roberto Filippini per mettere in relazione credenti e non credenti. Qualche volta è stato un dialogo fruttuoso, altre volte meno, ma va fatto nella chiarezza della propria identità».

I Focolari sono presenti in città sin dagli anni Cinquanta, che rapporti ci sono con la chiesa pisana?
«Fin dal primo esserci dei Focolari a Pisa ci sono stati uomini e donne di alta levatura umana, culturale, spirituale e ecclesiale come Angelo Equi. Lo stile che ne è venuto fuori è quello di una piena presenza e partecipazione alla vita ecclesiale, non è mai stato un corpo accanto alla chiesa pisana, ma realtà della chiesa pisana, con una spiritualità, una proposta che ha un senso e una proposta grande che arricchisce il cammino ecclesiale pisano. Sul piano associativo, in generale, non so per i Focolari, c’è un abbassamento partecipativo che vale per tutti perché viviamo la cultura dell’individualismo in cui non è possibile che cresca allo stesso tempo il senso della partecipazione, della solidarietà, dell’appartenenza. Si vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca. È un fatto culturale indotto da forme ideologiche che hanno in mano i mezzi di comunicazione sociale. Sono i risultati necessari delle premesse poste da decenni. Ci vorrebbe una conversione culturale e un ritorno ad un vero senso antropologico dell’uomo: senza confondere individuo e persona, i vari tipi di famiglia. È uno dei temi su cui anche i movimenti ecclesiali devono riflettere non per far crociate ma per fare formazione umana controcorrente».

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