Uscire dalla trappola mortale
Viviamo nell'irrealtà e non lo sappiamo. Ma cambiare è possibile. Istruzioni per chi vuole smettere.
Vi dicono che l’età non conta: chiedetelo come minimo ai vostri reumatismi. Che quel detersivo non solo lava più bianco, ma vi apre un meraviglioso tempo libero per l’amore e le altre “scelte”. L’auto vola in cielo, danza sull’asfalto di una città che si compone e scompone in parallelepipedi su e giù, e ruotanti.
Avete notato che la pubblicità sceglie sempre più – e sempre più consapevolmente e deliberatamente – l’irrealtà? Cioè la truffa psicologica? Il perché è semplice: la realtà puoi stirarla fino a un certo punto, poi non è più elastica, si (ti) spezza.
L’irrealtà, al cui vertice o abisso sta la droga, sembra di poterla allungare quanto vuoi, salvo che a un certo punto sei tu a sentirti slogato, fratturato, stirato come nelle antiche torture della ruota e, in una parola, bloccato in una trappola.
«Trescare col nulla», come diceva un mio amico, costa caro, ma sembra che non costi niente: meglio, ragiona sragionando l’animo afflitto dalla desolazione quotidiana degli egoismi in competizione, sognare, evadere, e sia pure, farsi infinocchiare dalla rutilante irrealtà, piuttosto che trafiggere dalla durissima realtà.
Ma sragionare costa di più, per capirlo basta visitare le discariche della vita, dai tribunali agli ospedali ai cimiteri, dove a non contare non è l’età ma la pubblicità. Come dicevo a proposito dello squadrare il foglio, sono sbagliate le misure iniziali, e purtroppo molti genitori sprovveduti, eredi-orfani (oggi più che mai, per la crisi, orfani) dell’edonismo consumista, hanno (dis)educato i figli a credere solo nel ciucciare la vita, dalla coca cola alla cocaina; scoprendo poi amaramente che quando non si crede in niente i figli o ti cambiano o ti specchiano inesorabilmente e si distruggono distruggendoti.
Con l’irrealtà va come è andata con la finanza drogata dei futures e affini, che ha prodotto l’enorme crisi economica in atto; sul piano dell’umanità quotidiana si è aperto lo stesso buco nero, che sembra non vedersi perché non si paga in contanti; ma in realtà (in realtà) si paga molto più caro in carne, sangue, anima e cultura: cioè avendo la meravigliosa natura ma cercando l’innaturale, avendo tesori di cultura ma mantenendo la più desolata cieca ignoranza, avendo l’anima ma cercando la (sotto) bestialità del getta e gèttati via.
Questo, che pare normalità, è l’incantesimo quotidiano in cui giace stregato l’homo televisivus, internetalis, cellularis e ipodalis, non se usa questi strumenti, ma se se ne fa usare diventando egli il mezzo, essi il fine. Lo aveva già capito all’inizio del Cinquecento l’intelligentissimo poeta Ludovico Ariosto (da non confondere con il preparato per arrosto) quando nell’episodio del secondo palazzo del mago Atlante, una delle pagine più belle e profonde di tutti i tempi, chiosa così la sua esilarante/tragica rappresentazione della povera umanità sbalordita a caccia dei suoi sogni: «A tutti par che quella cosa sia/ che più ciascun per sé brama e desia». E stanno lì prigionieri.
L’irrealtà si paga, altroché.
Ma si può anche smettere di pagarla, se veramente lo si vuole. Occorre però un grosso atto di coraggio umile, e possibilmente un amico (lo cantava già Antonello Venditti) che ti aiuti però non a dimenticare ma a capire. Non con discorsi, con tante parole con cui ci si può imbrogliare (sé stessi e a vicenda) senza fine. Prendere la realtà di petto, stancandosi e facendosi anche male – diceva Simone Weil che all’operaio che si ferisce il mestiere entra nel corpo –: con lavoro, studio, aiuto dato gratuitamente, disponibilità all’inatteso, ad amare senza interesse, fino a dimenticarsi: perché è solo dimenticandosi che ci si trova.
Se si tenta con un minimo di serietà (cioè senza calcolo) questa avventura, non è che vengano in mente grandi sistemi filosofici o inaudite scoperte di altro genere, vengono in mente, anzi nell’anima, le piccole foglie che non vediamo mai mentre hanno tanto da insegnarci, l’umoristica circospezione baffuta del gatto, la nostra patetica faccia allo specchio in cui qualche ruga può spianarsi e non per la crema, l’inenarrabile storia del Cielo e della Terra tanto più interessante dei litigi umani; e, se siamo ancor più sinceri, comincia a salire nell’anima una gratitudine, come un’acqua cheta che ricolma lentamente una concavità prima vuota e arida, e che ci spiega, lei, come è vero che siamo un dono donato a noi stessi, perché neanche un’unghia è nostra, e gli uni agli altri; un sacro dono, per il quale non importa il tempo di usufruirlo ma il modo, anche per poco; e poi il dono stesso, che siamo noi, così fragile e temporaneo, ci persuade che proprio rinunciando a possederlo diventa eterno attraverso un unico ultimo atto di amore.
Ma se tutto ciò è vero, ne consegue che il nostro “normale” rapporto con noi stessi, con gli altri e con le cose, è immerso nell’irrealtà anche senza l’aiuto della pubblicità; che l’“uso” di persone e cose ce le nasconde, perché le strumentalizza, in modo che noi stessi ne restiamo strumentalizzati. Perciò san Francesco definì l’acqua, oltre che “utile”, «umile, et pretiosa, et casta», e chiamava tutto e tutti fratelli e sorelle. Il realista era lui, gli irrealisti i suoi più o meno ricchi ma altrettanto avidi concittadini, a cominciare dal padre. Offriva così a sé stesso e ad ogni altro l’uscita dalla trappola mortale.
E per la stessa ragione Chiara Lubich – partendo da Francesco! – ha detto, insegnato e vissuto che si conosce se si ama, altrimenti no, e si ama se si fa il vuoto di sé dimenticandosi, ovvero si attua il semplice necessario riconoscimento del nostro nulla; che avviene realmente se, scriveva Dostoevskij nel 1864, «doniamo il nostro io ad ogni persona interamente e senza riserve», aggiungendo che questa è «la massima felicità possibile su questa Terra».