Uscire dalla crisi, con o senza l’aiuto europeo
Come molti altri Paesi europei, nella gara mondiale per lo sviluppo degli ultimi anni l’Italia è uscita di pista, e per riprendere la corsa prima che il distacco diventi incolmabile, adesso non le basta che lo Stato riprenda a funzionare, occorre qualcosa che ci riporti in carreggiata. Le sollecitazioni provenienti dal Laboratorio di dialogo tra parlamentari e società civile hanno messo in evidenza la necessità di trovare risorse adeguate per un serio piano del lavoro.
Volendo mantenere l’impegno dell’area euro di un bilancio in pareggio e della riduzione del debito non si disporrebbe di risorse per far ripartire lo sviluppo; occorrerebbe ridurre spesa pubblica, costo del lavoro ed evasione fiscale, ma non si può attendere che la politica ci riesca; servirebbe disporre per tre anni di 80 miliardi l’anno di nuove risorse: 40 per ridurre il debito, 20 per ridurre il costo del lavoro, 10 per una indennità di disoccupazione per tutti e 10 per compensare le immediate minori entrate per poter adottare il quoziente familiare necessario ad aiutare le famiglie numerose e la detrazione fiscale delle spese per servizi per ridurre drasticamente l’evasione.
Nei grandi Paesi fuori dell’area euro, il sostegno allo sviluppo si economico è stato realizzato stampando moneta: anche la Banca centrale europea ha fornito liquidità, ma solo alle banche, che non la hanno passata alle imprese; per dare ad esse lavoro, non sono stati permessi quegli investimenti extra bilancio che avrebbero stimolato lo sviluppo.
La prima nostra proposta è che la Banca centrale europea, per realizzare il suo compito di stabilizzare la moneta combattendo la deflazione, decida di immettere, senza toccare i debiti degli Stati, 800 miliardi l’anno per tre anni negli Stati dell’euro, facendosi socio di controllo di aziende o enti, in proporzione alle popolazioni degli Stati, che avessero l’obiettivo di realizzare opere per il consolidamento antisismico e idrogeologico dei territori, per la ristrutturazione di scuole e ospedali e per la costruzione di infrastrutture di comunicazione.
Che fare però se questa proposta non venisse accettata? Utilizzare le risorse interne: le famiglie italiane possiedono immobili per 5 mila miliardi di euro e beni finanziari per 3 mila e 600, di cui 1200 per depositi inferiori a 50 mila euro. Il dieci per cento di esse più benestante amministra il 44 per cento di questa ricchezza e non avverte la crisi, vede però anno dopo anno perdere valore ai suoi beni; l’altro 90 per cento avverte fortemente la crisi, essendo però impotente contro di essa. Il bene comune impone una soluzione utile al cento per cento delle famiglie!
Vi è chi suggerisce di chiedere un contributo alle famiglie più abbienti tramite un'imposta patrimoniale: ipotesi ragionevole solo se la politica tornasse credibile, per aver ridotto il proprio costo e aver messo le fondamenta per la riduzione della spesa pubblica.
La nostra proposta è di offrire un'alternativa all'imposta patrimoniale: alle famiglie benestanti potrebbe essere offerto di partecipare a un investimento, sottoscrivendo quote di un Fondo per lo sviluppo della durata di sette anni, gestito da una società finanziaria guidata da un commissario nominato dal presidente della Repubblica su una rosa di nomi del governo, incaricato di collocare per tre anni quote per 80 miliardi di euro all’anno; con il ricavato dovrebbe acquisire in blocco, in tre tranche, i beni immobili pubblici alienabili, una volta che questi fossero riportati per legge nella disponibilità dell'amministrazione centrale, anche se gestiti da amministrazioni pubbliche diverse.
Lo Stato dovrebbe assoggettare le famiglie che a fine 2013 disponevano di un patrimonio superiore a 1,5 milioni di euro per tre anni a un'imposta patrimoniale dell’1 per cento del valore del loro patrimonio, deducendo da essa sia l’Imu che l’imposta già applicata ai beni finanziari.
A esse lo Stato dovrebbe offrire in alternativa di sottoscrivere quote del Fondo per lo sviluppo, per un importo pari a tre volte l’importo dell’imposta patrimoniale. Alle altre famiglie italiane dovrebbe essere offerto di acquisire quote del Fondo con uno sconto del 10 per cento. Il Fondo dovrebbe liquidare le quote a sette anni dalla sottoscrizione.
Lo Stato italiano dovrebbe vendere in tre tranche i suoi beni alienabili a un prezzo pari al 90 per cento della loro presente valutazione al Fondo, che nell’arco di sette anni procederebbe alla loro vendita ai privati collaborando per meglio valorizzarli con le pubbliche amministrazioni e gli enti che li hanno in gestione.
Le quote del Fondo dovrebbero essere negoziabili sul mercato secondario regolamentato: a salvaguardia del loro valore, lo Stato si impegnerebbe al riacquisto da Fondo dei beni invenduti dopo i sette anni al prezzo di conferimento adeguato all’inflazione, per un importo fino al 50 per cento del valore totale.
I gestori del Fondo dovrebbero collaborare con gli enti che hanno in gestione i beni e con le pubbliche amministrazioni locali per valorizzarli al massimo, modificando le loro destinazioni d’uso e liberando gli acquirenti da ogni pratica autorizzativa per la loro fruizione. Le vendite dei beni avverrebbero per gara pubblica o trattativa privata come considerato opportuno dal commissario, che sarebbe retribuito al livello di massimo dirigente pubblico, e sarebbe sostituibile in qualsiasi momento senza penali su iniziativa del Presidente della repubblica.
Tante cartolarizzazioni non hanno funzionato: perché questa dovrebbe? Perché si ispira all’impegno per crescere insieme proprio del progetto di Economia di Comunione, che invita a cercare il bene di tutti senza rivendicazioni e senza considerare alcuno un avversario. Il Fondo sarebbe impegnato per legge a destinare il maggior valore dei beni, dovuto allo sconto iniziale e alla variazione di destinazione d’uso, in tre direzioni: un terzo per l’aumento di valore delle quote del fondo, un terzo per investimenti dell'amministrazione locale o dell’ente gestore, un terzo per attività produttive e consorzi di credito per le piccole medie imprese del territorio.
Quali effetti per lo sviluppo economico? Il ricavo della vendita al Fondo permetterebbe di ridurre la emissione di titoli di Stato, riqualificare il debito e ridurre lo spread probabilmente di 100 punti e il costo del debito in media di 20 miliardi l’anno, rivalutando anche i titoli emessi in precedenza. Le maggiori entrate dei cittadini per la riduzione delle imposte sul lavoro e per la ripresa economica, inciderebbero sul commercio, accrescendo le entrate Iva di 15 miliardi l’anno. La deducibilità delle fatture per i servizi professionali e artigianali inciderebbe sull'evasione con possibile recupero di 25 miliardi di imposte, da dedicare alla riduzione del debito, a investimenti per il territorio, la ricerca, l’innovazione e l’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese. Sarebbero quindi disponibili maggiori risorse per 60 miliardi l’anno, che permetterebbero di mantenere anche negli anni successivi l’impegno di ridurre il debito secondo il fiscal compact.
I sottoscrittori delle quote potrebbero anche trarre da esse un utile, comunque la loro liquidazione anticipata frutterebbe una perdita inferiore all’alternativa dell'imposta patrimoniale. La vendita dei beni sarebbe favorita dalla coincidenza di interessi tra il Fondo e i precedenti gestori, che lucrerebbero un terzo della maggiore valorizzazione e dal fatto che il Fondo si farebbe carico delle pratiche di variazione di destinazione d’uso.
L’impegno a investire un terzo dell’utile per attività produttive locali renderà il territorio favorevole all’operazione e l’Italia potrebbe tornare in gara in quei primi posti in Europa che le spettano quale Paese fondatore.