Uscire da sé al tempo del coronavirus
Non possiamo uscire dalle nostre case, ma possiamo uscire da noi stessi, cercare nuove prospettive da cui guardare a questo dramma, non per renderlo meno doloroso o più accettabile, ma per riscoprirci esseri umani, non più soli e rinchiusi dentro i confini delle nostre paure, ma legati da un sentimento di comune umanità.
Il momento particolare che stiamo attraversando ha trasformato profondamente ed improvvisamente le nostre abitudini. E non solo. Ci sono cambiamenti meno visibili che stanno accadendo in noi, che riguardano i nostri pensieri, le nostre emozioni e i nostri desideri più profondi.
Senza alcuna pretesa di definire o semplificare qualcosa che per sua natura è molto complesso, proviamo ad interrogarci insieme su cosa sta accadendo in noi e tra noi, in questo difficile periodo, in cui un piccolo virus sembra aver preso completamente in mano il timone della nostra storia.
A mio parere, uno degli effetti di ciò che stiamo vivendo è il crollo improvviso dell’illusione di poter controllare la realtà, così diffusa nel nostro mondo occidentale. Quando la vita scorre normalmente, infatti accade spesso di illuderci, in maniera più o meno pervasiva, di poter tenere tutto (o quasi) sotto controllo.
E quando vediamo che qualcosa sfugge a questa regola ci affanniamo per riprendere subito in mano le redini della situazione. Tante possono essere le situazioni che fanno crollare quest’illusione. L’esperienza che stiamo vivendo in questi giorni lo è in particolar modo.
Non solo non possiamo più prevedere, pianificare, organizzare liberamente le nostre giornate, ma non sappiamo nemmeno quanto durerà tutto questo e che effetti avrà su di noi come singoli, come famiglie, come comunità. Senza parlare poi del dolore per le persone toccate dalla malattia e della paura del contagio, nostro o delle persone che amiamo.
Una situazione che fa davvero vacillare ogni certezza.
Questo contatto improvviso e inaspettato con la nostra vulnerabilità può generare diverse reazioni.
Una di queste è la reazione di fuga o “evitamento”: per proteggerci dall’impatto emotivo di ciò che sta accadendo, cerchiamo di non pensarci. Non potendo controllare la situazione, cerchiamo di anestetizzarci dalle emozioni che minacciano di farci stare male.
Evitiamo di ascoltare o leggere le notizie relative alla pandemia o le ascoltiamo come se fossero qualcosa di lontano da noi. Chi adotta una strategia di “evitamento” chiede alla propria mente di minimizzare il problema, di fuggire dal contatto con alcuni aspetti della realtà, di pensare inconsapevolmente: “Tanto a me non accadrà”. Di fronte alle cifre che ogni giorno vengono fornite sui contagi, sui ricoveri e sui decessi la strategia di fuga, spinge la persona a vederle semplicemente come numeri, come mere informazioni, evitando di entrare in contatto con il dolore e la paura che stanno dietro a quelle cifre.
Questa reazione è più diffusa nei giovani e negli adolescenti, che per caratteristiche legate alla loro fase di sviluppo, tendono a sottovalutare il rischio e a sentirsi invulnerabili.
Un altro tipo di reazione, per certi versi opposta, può essere quella di cedere completamente al panico, lasciandosi travolgere dal pessimismo e dall’angoscia. In questo caso la mente comincia a proiettare scene paurose e catastrofiche, a rimuginare continuamente su ciò che potrebbe accadere a noi o ai nostri cari. Una persona in preda al panico tipicamente si sente bloccata, durante il giorno fa fatica a concentrarsi, la notte fa fatica dormire o ha un sonno disturbato.
Se l’ “evitamento” ci porta generalmente a sottovalutare il rischio, cedere totalmente al panico può invece immobilizzarci, può generare in noi sintomi fisici come tensione muscolare, o sensazione di pesantezza al petto, e renderci incapaci di affrontare la quotidianità, perché troppo concentrati a lottare contro la paura.
Per quanto non ci sia una reazione “giusta” in assoluto ad una minaccia come questa, appare evidente che sia fuggire dalle proprie emozioni, sia lasciarsi travolgere da esse non ci aiutino ad affrontare questa realtà.
Per questo penso sia importante fermarci (e non solo sospendendo le nostre attività) ed entrare in contatto con questa realtà in modo autentico, con coraggio e consapevolezza.
Questo potrà aiutarci ad integrare le diverse emozioni che si manifestano in noi, cioè a far sì che esse possano “comunicare” tra loro.
Possiamo sentire il dolore di chi soffre, ma lasciarlo illuminare dalla speranza, possiamo accogliere in noi sentimenti come l’impotenza e la paura, ma al tempo stesso affiancare ad essi la domanda: «Cosa posso fare per non sprecare questi giorni così dolorosi e difficili?»
È vero: siamo vulnerabili e spaventati. Tuttavia se siamo capaci di uscire da noi stessi, per ascoltare e confortare chi è in difficoltà, se possiamo sentirci parte di una comunità che insieme sta lottando, unita, la paura diventa meno capace di travolgerci ed intrappolarci.
La pandemia non è purtroppo l’unico dramma del nostro tempo, (basti pensare alle tante guerre, ai respingimenti alla frontiera, alle morti nel Mediterraneo, agli incendi che hanno devastato aree enormi del nostro pianeta), ma è certamente quello che ci sta toccando più da vicino, gettandoci brutalmente fuori dal cerchio delle nostre certezze.
Auguriamoci insieme che quando usciremo da questi giorni bui, questo doloroso contatto con la nostra vulnerabilità non sia avvenuto invano. Che ci aiuti a non rifugiarci più dietro lo scudo anestetizzante delle nostre certezze, che ci insegni l’arte della condivisione e della compassione.