Usa e Talebani trattano
Anche se la stragrande maggioranza dei lettori rimarranno a bocca aperta, da tempo sono stati avviati, a Doha, la capitale del Qatar, delle trattative dirette tra Washington e i talebani afghani. Nel nome della più semplice realpoltik, la diplomazia di Trump e quella degli studenti coranici stanno lavorando ad un progressivo abbandono dello scenario afghano da parte dei soldati Usa, a diciotto anni dall’intervento susseguente alla caduta delle Torri Gemelle.
Una nuova tornata di colloqui diretti tra Washington e i talebani è durata sei giorni a Doha, dove i talebani hanno un ufficio di rappresentanza espressamente aperto per iniziative diplomatiche come questa. «Gli incontri sono stati più produttivi del solito su questioni vitali», ha annunciato via Twitter sabato scorso l’inviato Usa per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad. Mentre il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ha risposto in un altro tweet che «sono stati fatti progressi sul “ritiro” degli Stati Uniti», e che le trattative continueranno. Lo stesso segretario di Stato statunitense Mike Pompeo ha dichiarato, sempre su Twitter ormai diventato l’arena della comunicazione politica mondiale, che le notizie provenienti da Doha erano «incoraggianti» e che gli Stati Uniti sono «seri nella ricerca della pace». In soldoni, lo scopo dei colloqui di Doha è quello di trovare un modo plausibile e accettabile per portare i talebani allo stesso tavolo di trattative con il governo afgano.
I talebani hanno come scopo primo quello di ottenere un calendario credibile per il ritiro dall’Afghanistan delle truppe straniere, mentre gli Stati Uniti stanno cercando il modo di evitare che in futuro l’Afghanistan sia ancora la base di gruppi terroristici che colpiscono all’estero. Questioni accessorie sono un possibile cessate il fuoco, lo scambio di prigionieri e la stessa integrazione dei talebani nel processo politico afghano, senza pregiudicare la legittimità del governo eletto “democraticamente” a Kabul. Ha precisato il negoziatore Usa: «Non accetteremo mai una soluzione del conflitto finché non saremo d’accordo su tutto, cioè anche sul dialogo tra gli afghani e un completo cessate il fuoco», ha detto Khalilzad che ieri si è recato a Kabul per discutere col presidente afgano Ashraf Ghani, con cui ancor oggi i talebani non vogliono negoziare direttamente, perché lo considerano un fantoccio in mano del Grande Nemico statunitense. Meglio per loro trattare direttamente con tale avversario.
La durata continuamente allungata e le dichiarazioni dei partecipanti testimoniano l’avanzamento nei negoziati. Ciò sembra confermare quanto annunciato da Trump sul ritiro delle truppe Usa da Siria e Afghanistan. Tanto più che gli stessi talebani hanno nominato un nuovo capo dei negoziati, il mullah Abdul Ghani Baradar, già luogotenente del celebre Mullah Omar, fondatore e guida suprema dei talebani, morto nel 2013 in Pakistan.
Ma la via verso la pace rimane tuttavia lunga. «Fino a quando non sarà accettata la questione del ritiro delle forze straniere dall’Afghanistan, è impossibile avanzare su altre questioni», ha detto il portavoce dei talebani, aggiungendo che «le voci di un cessate il fuoco e dell’apertura di colloqui con l’amministrazione di Kabul sono false». Specularmente gli statunitensi lasciano intendere che la vera trattativa dovrà poi essere avviata da colloqui diretti tra governo afghano e talebani, cosa attualmente non accettata da questi ultimi. Impossibile fare previsioni sulla durata delle trattative, ma si può scommettere che, in nome di una realpolitik congenita sia all’amministrazione Trump che alla direzione dei talebani, qualcosa alla fine verrà fuori.
Che poi a rimetterci da un accordo siano i cittadini inermi afghani, questo è un altro discorso. La trattativa parte infatti da presupposti inconciliabili: gli Usa vogliono salvare la presunta democrazia istaurata nel Paese centrasiatico, mentre i talebani non considerano la democrazia elettiva che come un modo per riprendere il potere e poi fare quel che loro aggrada. Ma di questo non si parla a Doha.