Usa-Iran e i droni degli huthi

La vicenda dei droni che hanno colpito nel centro produttivo del petrolio saudita e la sonora sconfitta militare in Yemen dei soldati di Riad, obbliga a porsi ancora una volta la domanda: ma quand’è che Usa e Iran cominceranno a parlarsi sul serio?  
EPA/BANDAR ALJALOUD / SAUDI ROYAL COURT

I segni di una qualche evoluzione nel durissimo contrasto che oppone Usa ed Iran erano emerse a Biarritz, durante l’ultimo G7 di fine agosto, quando il presidente francese Macron invitò a sorpresa il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Zarif.

Fu un segnale seguito indirettamente da una qualche disponibilità al dialogo con l’Iran da parte del presidente statunitense Donald Trump, dopo oltre un anno di tensioni, minacce e azioni ostili. L’apertura non piacque ai “falchi” dell’amministrazione Usa, tanto che poco dopo il consigliere per la Sicurezza nazionale, il “falco” John Bolton, fu costretto alle dimissioni per divergenza di vedute con il presidente: l’ennesimo collaboratore di Trump rimosso (la percentuale di licenziamento dei collaboratori della presidenza Trump sembra aggirarsi sul 77%, un vero record). Questo avveniva il 10 settembre scorso.

Poi c’è stato l’attacco in Arabia del 14 settembre e, alla fine del mese, la batosta militare inferta ai Sauditi dalle milizie yemenite houthi. Cosa è successo in Arabia Saudita sabato 14 settembre? Un attacco a sorpresa, prima dell’alba, con una decina di droni e pare alcuni missili, che ha colpito due importanti centri sauditi di estrazione e trattamento del petrolio, il campo estrattivo di Khurais, di proprietà del colosso petrolifero saudita Aramco, e l’impianto di trasformazione del greggio di Buqaiq, 250 km ad est di Khurais, in grado di trattare 7 milioni di barili al giorno. Un disastro di vaste proporzioni: i due impianti sono stati bloccati, dimezzando la produzione saudita, con una perdita stimata in 5,7 milioni di barili al giorno, pari a circa il 5% della produzione giornaliera mondiale. E ci vorranno molte settimane per ripristinare gli impianti danneggiati.

Chi è stato? La rivendicazione non si è fatta attendere: gli houthi dello Yemen, o meglio il gruppo armato noto come Ansar Allah (partigiani di Dio), i combattenti zayditi che, sostenuti dall’Iran e dal movimento sciita libanese Hezbollah, dal 2015 difendono il loro Paese, lo Yemen, dagli attacchi della coalizione a guida saudita, dalla quale peraltro gli Emirati (Eau), principale alleato regionale dei sauditi, si erano ritirati a luglio.

È quanto in genere viene definito guerra dello Yemen, una drammatica catastrofe umanitaria, a detta dell’Onu. Le stime di questa tragedia parlano di quasi 100 mila vittime civili, ma secondo un recente studio dell’Università di Denver patrocinato dalle Nazioni Unite, la guerra yemenita avrebbe causato la morte di altre 131 mila persone per effetti collaterali come fame e malattie, e un costo per l’economia yemenita di 89 miliardi di dollari. Senza parlare delle condizioni disumane in cui sopravvivono milioni di civili yemeniti sottoposti a continui raid aerei.

Ma per tornare all’attacco del 14 settembre ai siti petroliferi sauditi (che peraltro non è una novità, anche se mai prima con effetti così devastanti) e alla rivendicazione degli houthi, lo sconcerto e l’incredulità hanno coinvolto oltre ai sauditi anche il loro principale sponsor internazionale: il governo Usa del presidente Donald Trump.

Il segretario di Stato Mike Pompeo si è affrettato a puntare il dito contro l’Iran, affermando: «Non c’è alcuna prova che l’attacco sia arrivato dallo Yemen». Che equivale a dire: sono stati gli iraniani. Un’affermazione che sembra suonare come un rifiuto di accettare la realtà per concentrarsi sulla retorica della mission che da oltre un anno l’amministrazione Usa persegue con ostinazione: impedire con ogni mezzo all’Iran di dotarsi di tecnologia nucleare, civile o militare che sia.

Dopo un paio di settimane, gli huthi filo-iraniani hanno segnato un altro punto importante nel senso della loro determinazione a respingere gli invasori sauditi: con un’incredibile manovra militare sul terreno hanno circondato e sconfitto tre brigate saudite, circa 12-14 mila uomini, a Najran in territorio saudita e con un grande numero di prigionieri (pare 7 mila), in massima parte contractor, cioè mercenari, sebbene i sauditi siano dotati di sofisticate armi americane e inglesi pagate miliardi di dollari.

Questi fatti riusciranno finalmente a spingere almeno a un ridimensionamento dell’insopportabile prosopopea che ha finora dominato nella guerra yemenita? Ma soprattutto: Usa e Iran decideranno una buona volta di parlarsi?

 

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