Usa, Biden rinuncia: Trump gioisce, Harris si prepara
Già da giorni media e politici americani affermavano che “non è questione di se, ma di quando”, e ora l’annuncio è arrivato: il presidente in carica Joe Biden si ritira dalla corsa per la rielezione, sostenendo nella sfida elettorale contro Donald Trump la sua vice Kamala Harris – che però, dice il New York Times, ha saputo all’ultimo della decisione. «Per quanto sia stata mia intenzione cercare la rielezione, ritengo sia nel miglior interesse del mio partito e della Nazione che io faccia un passo indietro, e mi concentri solo sul portare a termine i miei doveri di presidente fino al termine del mio mandato», ha scritto in una lettera aperta al Paese; aggiungendo poco più tardi, in un messaggio questa volta rivolto ai democratici, di voler «offrire il mio pieno sostegno a Kamala come candidata del nostro partito».
Lecito credere, trattandosi appunto di una mossa ampiamente annunciata, che anche le reazioni su ogni fronte – altri leader politici, mercati finanziari, finanziatori della campagna elettorale, società civile, e quant’altro – siano state in buona parte già “meditate”; ma in ogni caso sono state molte, e in alcuni casi anche vivaci.
Il primo è stato naturalmente Donald Trump, che ha affermato con fare sprezzante che «battere Kamala Harris sarà ancora più facile», ha invitato Biden a dimettersi anche da presidente se ritiene di non essere adatto alla rielezione, e sentenziato che i finanziatori della campagna elettorale su entrambi i fronti dovrebbero ora essere rimborsati per frode.
Diversi commentatori sia in patria che all’estero fanno notare però che l’ex presidente non sta dando per scontata la vittoria contro Harris, dato che già da tempo è partita una serie di attacchi contro di lei in particolare su X – social del miliardario Elon Musk, grande finanziatore e sostenitore di Trump, che all’annuncio del ritiro di Biden ha reagito semplicemente con una faccina sorridente sulla piattaforma di sua proprietà. A credere in Harris sono anche i finanziatori del partito, dato che solo nel corso della notte italiana sono stati raccolti 46,7 milioni di tra i piccoli donatori; mentre davanti alla Casa Bianca si sono radunati manifestanti con cartelli “Grazie Joe”, e anche alcuni di sostegno alla vice.
Sempre, naturalmente, che la candidata sia Kamala Harris: a pronunciarsi deve essere infatti la convention democratica che si terrà a Chicago il mese prossimo, e che potrebbe in linea teorica scegliere un altro nome. Cosa che però appare meno probabile per diversi motivi: innanzitutto perché Harris potrebbe beneficiare da subito dei fondi e della macchina organizzativa elettorale già messa in moto da Biden per sé stesso e per la vice, mentre per trasferire il tutto a qualcun altro servirebbe del tempo che non c’è; poi perché Harris è comunque, secondo i sondaggi, quella che potrebbe godere di maggior consenso; e infine perché, fanno notare molti commentatori, nessuno dei principali “papabili” – dal governatore californiano Newsome a quella del Michigan Whitmer – intende farsi avanti in una sfida che rischia di mettere la parola fine alla carriera politica di un qualcuno che invece potrebbe marciare trionfante su Washington nel 2028.
Solo Robert Kennedy Jr, tecnicamente un indipendente, si è detto aperto a partecipare ad una “mini-primaria” contro Harris. Voci circolano anche in merito al senatore indipendente della West Virginia, Joe Manchin. Sempre di indipendenti si tratta comunque, ad indicare come all’interno dei Democratici nessuno intenda invece uscire allo scoperto, almeno per ora: dai principali esponenti, su tutti Nancy Pelosi e Hillary Clinton, è arrivato il sostegno a Harris. Pesa viceversa il silenzio di Obama: l’ex presidente ha semplicemente diffuso un messaggio di ringraziamento a Biden sia per gli anni da suo vicepresidente che per il quadriennio da presidente, ma senza citare la questione del successore. Questo però, afferma il New York Times, semplicemente in linea con il suo volersi porre come super partes in qualità di ex presidente. Sua moglie Michelle, da molti invocata come possibile candidata, continua peraltro ad affermare di non essere interessata alla politica.
In quanto ai leader politici esteri, le reazioni sono per ora improntate alla misura: sul fronte italiano, ad esempio, sia la presidente del Consiglio Meloni che il ministro degli esteri Tajani, così come il suo omologo francese Stèphane Sèjourné, hanno assicurato ottimi rapporti con gli Usa chiunque sia il prossimo presidente. Più netto invece l’Alto rappresentante per la politica estera Ue, Josep Borrell, che ha affermato di essere sicuro che «ci sarà una differenza piuttosto importante per le relazioni transatlantiche a seconda di chi ci sarà dopo il voto, ma spetta ai cittadini americani decidere, non voglio interferire».
Chi si aspettava grandi reazioni dal Cremlino è rimasto sostanzialmente deluso: Putin ha affidato al suo portavoce Peskov una dichiarazione piuttosto neutra in cui si afferma che la Russia monitorerà la situazione, ma considera prioritari non i risultati delle elezioni americane, ma il raggiungimento degli obiettivi del Distretto militare centrale, ossia la guerra in Ucraina. E proprio questo ha assicurato il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo Medvedev, scrivendo che «Biden è fuori. Gli auguriamo buona salute. Gli obiettivi dell’operazione speciale militare saranno raggiunti». Gratitudine, sull’altro fronte, è stata espressa dal presidente ucraino Zelenskij.
Interessante, infine, sulla questione Harris, leggere un editoriale del San Francisco Chronicle, giornale di quella che è considerata la città liberal per eccellenza. Il lungo articolo di Larry Gernston analizza tutti quegli aspetti contraddittori della società americana che portano persino i liberali, che mai oserebbero fare discriminazioni contro le donne o contro le persone di colore, a sentirsi in qualche modo non convinti che una donna non bianca sia la scelta migliore per correre come presidente; così come a sedersi sempre accanto alle persone della stessa etnia su un autobus, a mandare i propri figli in scuole in cui non troveranno in classe compagni neri o latini, o ad accettare che una donna guadagni meno di un uomo per fare lo stesso lavoro, senza nemmeno pensare che questa sia discriminazione. Il dito è insomma puntato contro le contraddizioni della società americana e su come queste possano influire sulla corsa presidenziale, ancor prima che che sulla scelta dell’uno o dell’altro candidato: un Paese che a parole si professa contro le discriminazioni, magari credendoci pure genuinamente, ma in cui poi l’essere donna e di colore è ancora ritenuto uno dei maggiori ostacoli nel raggiungere lo Studio Ovale.