Urge la tregua tra Israele e Hamas

Troppe le vittime civili di questo conflitto, che non può risolversi militarmente per i tanti temi implicati e per i costi umani altissimi. Serve il coraggio di riaprire il dialogo e di non cedere la parola esclusivamente alle armi. Intervista a Pasquale Ferrara, segretario generale dell'Istituto universitario europeo di Firenze
Gaza

Una situazione complessa e allo stesso tempo di stallo è quella che soggiace di fatto al conflitto tra Israele e Hamas che continua a provocare distruzione e a mietere vittime innocenti senza di fatto accettare una tregua e una prospettiva di dialogo. Abbiamo chiesto a Pasquale Ferrara un'analisi di questi giorni convulsi e sanguinosi.  

Quando potremo scrivere la parola fine a questo nuovo conflitto? Dobbiamo aspettarci attacchi ancora più violenti?

«La situazione è indubbiamente complessa, ma non credo ci siano le condizioni per arrivare a soluzioni estreme perché sarebbero molto costose dal punto di vista delle vite umane, come sta accadendo e anche dal punto di vista politico. Se Benjamin Netanyahu dovesse andare fino in fondo, dovrebbe cancellare le scelte operate da Sharon e quindi rioccupare militarmente Gaza. A mio avviso non ci sono le condizioni per farlo e anche la prospettiva di un attacco da terra va vista come supporto all'idea di colpire degli obiettivi di Hamas, ma non di una rioccupazione della Striscia. Dall'altra parte Hamas gode del sostegno politico di molti paesi della regione, ma dal punto di vista degli allineamenti è completamente isolata. Non ritengo che si possa andare avanti a lungo, urge un accordo sulla tregua che non comprometta la volontà politica delle parti ma che al contempo offra una soluzione perché stanno morendo troppi civili. Credo però che questa scelta sia più sull'orizzonte di Netanyahu che di Hamas».

Cosa possiamo aspettarci allora?

«Anzitutto va esaminata la situazione di Hamas dove più che di evoluzione si può parlare di involuzione dal tempo in cui ha vinto le elezioni e ha partecipato ad un governo di unità nazionale con Abu Mazen. Il punto è che nel tempo le posizioni di Hamas sono diventate di chiusura e molto intransigenti e da movimento di grande consenso popolare si è trasformato in una sorta di regime interno a Gaza che finisce per tenere in ostaggio la popolazione, già sofferente per l'embargo pressoché totale da parte di Israele. Quindi a Gaza si vive sotto una doppia segregazione».

Quali prospettive si aprono per le due parti in causa?

«Hamas ha tentato ambiguamente di giocare su due tavoli. Da una parte si è detta disponibile ad un processo di riunificazione con l'Organizzazione per la liberazione della Palestina e a confluire all'interno di un'unica autorità palestinese, iniziando in tal modo un processo dagli esiti finali ancora incerti. Dall'altra parte c'è il ricorso all'uso della violenza bellica nei confronti di Israele senza avere peraltro alcuna speranza di vittoria militare. La strategia di Hamas sembra intenzionata a rafforzare il proprio potere all'interno della Striscia. Israele, nello stesso tempo, vive un'ossessione identica e parallela: quella della sicurezza. Perché è vero che i missili di Hamas rappresentano una minaccia, ma è anche vero che non c'è soluzione militare a questo tipo di contrapposizione».

Cosa sperare dal contesto internazionale?

«Difficile da decifrare la direzione che si intraprenderà. Anzitutto sorprende il silenzio dell'Egitto anche se la nazione retta da Al Sisi non è più quella di Morsi, poiché serve ricordare che Hamas aveva una particolare intesa con i Fratelli musulmani, mentre questo nuovo Egitto tace. Lo si deve certamente ai tanti rivolgimenti interni, che non hanno consentito di prendere le misure della sua posizione all'interno della regione. Resta comunque il Paese che più può fare qualcosa per far cessare le ostilità. Dall'altra parte c'è l'Arabia Saudita che ha stanziato aiuti umanitari nei confronti dei Palestinesi a Gaza. Poi c'è l'Europa che si contraddistingue ancora una volta per la sua assenza. Le visite del ministro degli Esteri tedesco e di quello italiano Mogherini, già programmata da tempo, non fanno intendere che l'Europa possa giocare un ruolo in questo momento perché non gode della fiducia di Israele e non ha nessun tipo di autorità per convincere Hamas».

E gli Stati Uniti?

«Sono gli interlocutori tradizionali e infatti Kerry ha offerto la propria mediazione, ma non è stata raccolta sufficientemente. La Russia invece sta a guardare anche se da qualche anno è rientrata in Medioriente con la minaccia di un intervento durante il momento più critico della guerra civile siriana. La situazione quindi registra al contempo complessità e stallo. C'è bisogno che qualcuno prenda in mano con coraggio il conflitto per evitare che solamente la prospettiva militare domini».

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons